Rileggevo un recente articolo sulla vendita da parte degli eredi di David Bowie del portafoglio di 26 albi (più i postumi) per “oltre 250M di $” del “magro duca bianco.”
Già scrissi sul “vecchio bacucco” Bob Dylan e relativa vendita dell’intero catalogo ed ecco che sono arrivati pure Neil Young e Bowie. Certo, sono tutti anzianotti e chi non è già morto… è naturale che voglia assicurare continuità alla prole o mugliera, se ce l’ha. Ma è solo per questo?
L’acquirente del catalogo Bowie è la WMC, braccio “publishing” di uno degli oligopolisti dei media, la Warner Bros. Il CEO Guy Moot ha commentato il trasferimento con una frase a prima vista ovvia: “Queste non sono solo canzoni straordinarie, ma pietre miliari che hanno cambiato il corso della musica moderna per sempre”. Se vogliamo essere onesti possiamo concordare (forse) con la prima frase, ma certamente per la seconda abbiamo bisogno di parecchio tempo per convincerci.
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Il discorso, però, non è di andar a vedere l’ideologia cantata dal Bowie. Piuttosto di comprendere perché questi cataloghi vengano acquistati a prezzi che ci si mette decenni a ripagare per quanto “valgono” cioè… con gli utili che creano. Ed il motivo è -come diceva Chuck Berry- perché Beethoven s’è fatto da parte e adesso, volere o volare, c’è Bruno… Mars (nessuna correlazione) e Nicky Minaj. Ed è qui che s’inseriscono Bowie e Neil Young.
Beethoven, Bach o Respighi sono merce per una frazione minuscola del pubblico. Il grosso del fatturato è fatto da gente che vuole distrarsi, cerca ‘hooks’ (ami = melodie che ti carpiscono) e frasi liberatorie. La nuova musica classica è divenuta il pop: come la lirica entusiasmava il popolo, sin dai cori greci per arrivare al “Risorgimento”, grande (e forse la prima) operazione propagandistica menata con l’aiuto della musica, così oggi i Beatles sono considerati “imprescindibili” da chi si avvicina alla ‘musica del popolo.’
Essi sono i nuovi Beethoven. E come sa chi ascolta di classica, anche allora c’erano i bravi e i così così. E c’erano gli innovatori e i copisti. E c’erano quelli che facevano musica per una sorta di allegria un po’ più (!) spensierata, di quella accigliata stile “l’Anello dei Nibelunghi.” In fondo, Franz Lehar e l’operetta francese non erano Mozart.
Quanto stanno facendo le innumerevoli “Schools of rock” (corsi universitari basati sullo studio della musica rock) è sostanzialmente aiutare la costruzione di una sorta di piramidale scala gerarchica del pop da cui estrarre i nuovi Beethoven e Bach, da vendere poi per i prossimi cent’anni.
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Pubblicato su BlowUp aprile 2022