Luca D. Majer
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E Karlheinz Stockhausen?… una sua vera ossessione. Forse per via delle iniziali identiche, diventa una (invero temeraria) pietra di paragone per la critica unanime, dalla quale KS fece tutto il possibile per dissociarsi, al contrario di quanto fece con i Pink Floyd, indubbiamente forti ispirazioni con (ad es.) il finale di organo di A Saucerful of Secrets. Stockhausen no: “Son veramente stufo di sentire il nome Stockhausen.” E ancora: “non c’è mito dietro a ‘Stockhausen.’ E’ solo che un inetto critico dopo l’altro copia questa parola magica, ‘Stockhausen.’ (…) Ce ne sono tanti di questi scrittori.” Ma il tema qui non è più la scaramuccia, è focale: “Quello che ho sentito [di Stockhausen] suona orribile alle mie orecchie ed alle orecchie e ai cuori della maggior parte del pubblico. Stockhausen forse [sottolineato mio; LOL -ndtr] è un buon teorico. [Ma] Chi sente volontariamente la sua musica? Chi se la ‘gode’?

 
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Non è difficile trarre la conclusione che, in un certo senso, Schulze (qui più di ogni altro corriere cosmico) abbia sentito su di sé una sorta di responsabilità storica nell’aprire suoni letteralmente inauditi ad un pubblico che non cercava la soddisfazione intellettuale che si può provare ad un concerto di Cage. No di certo. A lui e al suo pubblico garbavano invece note assonanti e qualche momento di tensione, che poi risolvesse in soluzioni armoniche già sentite: “Uso alcuni collages di suoni che mostrano la discrepanza tra armonia e disarmonia, o più semplicemente tra armonia e suono (…) Talora devo suonare suoni aggressivi, giusto per tornare indietro ad una triade minore, che poi suona come la gloria del paradiso.” 

 
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Pubblicato su Blow Up, numero di luglio/agosto 2022