Luca D. Majer
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Frammenti di un breve articolo in memoria di Klaus Schulze di Kosmische Kourier memoria, per quarant'anni il Grande Sacerdote Cibernetico del rock tedesco.

 
 
 
 
 
 
IL GRAN SACERDOTE CIBERNETICO
 
PS: io faccio musica con strumenti elettronici ma non faccio ‘musica elettronica’.
Klaus Schulze
 
 
GRANDE
 
Che ti viene da dirlo, appena entri nel sito ufficiale di KS (https://klaus-schulze.com). Dietro una grafica così ‘70 da divenire una capsula del tempo di quegli anni, il sito veicola “grandezza” ovunque. Una meticolosa costruzione della “persona” Schulze, disponibile on-line sia gratis che a pagamento. La discografia evidenzia 92 (!) titoli di CD (parecchi dei quali doppi, tripli + cassette da 10, 25 o 50CD -sic- cad.), altri 21 CD in collaborazione e 11 CD della (sua) serie “Dark Side of The Moog” con biografie pay-per-view del tutto meticolose.
 
Il sito è anche la fonte delle interviste che utilizzo qui, per citare Schulze senza interferenze. Iniziando da quell’intervista dove certi dettagliati ricordi del tour spagnolo lasciano intendere l’accuratezza di Schulze, sorta di archivista alla Zappa: “[Nel ’91, in Spagna] senza un traduttore, ci siamo comprati un dizionario e ci siamo annotate (e poi imparate) tutte le parole necessarie in spagnolo per il nostro spettacolo: mas, mucho, poco, pleno, mismo, despues, solamente, antes, sin, oscuro, claro, hoy en dia, espero […] Guarda: abbiamo ancora quegli appunti; e il dizionario.”
 
E’ comprensibile che nella lotta darwiniana per un posto nei campi elisi della nascente musica popolare elettronica ogni mezzo fosse da considerarsi lecito e quelli di Schulze tali erano. Così come non c’è dubbio, esplorando il suo sito, che “Grande” Schulze lo è stato.
 
Lui, i Tangerine Dream di Edgar Froese e tutt’al più, forse-forse, i Kraftwerk: ecco gli unici, inimitabili, grandi aedi di una musica assolutamente rivoluzionaria, “elettronica” (checché neghi KS: lui che s’è trovato con Robert Moog e Wendy Carlos a presiedere la giuria della ARS Electronica Competition, grottesca “gara” di musica elettronica, a Linz nel 1980.)
 
KS parla addirittura di routinarie conversazioni telefoniche con Edgar Froese. E, in una di queste, i due concludono che la musica dei TD va bene per il mercato americano, ma non quella di Schulze, uomo “troppo sensibile”: “Scherzammo un po’ e decidemmo: Edgar ti becchi l’America, io prendo l’Europa :-).” Finì che Edgar si prese tutte e due. Ma Klaus Schulze finì per diventare mondialmente Grande, da solo.
 
Questa rivalità con i Tangerine Dream, ai quali peraltro prestò il proprio drumming per la loro opera seminale, è in vero una rivalità con “Mister TD” Froese, il Portos dei moschettieri “cosmici” tedeschi della prima ondata, colui che si appropriò di questo genere musicale. Il quale, dirà KS in un’intervista… “quando la gente l’ascolta pensa allo spazio, alla NASA.
 
Froese se ne appropriò, ma insieme a Schulze. Il quale arranca dietro alla macchina oliata dei Tangerine Dream, per via (secondo lui) di un conto vecchio, mai saldato, che aveva a che vedere con il contratto con Branson e la sua Virgin: “Eravamo sotto contratto mondiale con la Virgin inglese negli anni ’74 e ’75. E avemmo l’impressione, allora, che c’avessero scritturato per togliermi dal mercato. Perché la loro preoccupazione principale era un contratto decennale firmato con un gruppo a noi simile [i TD del Froese] e il coinvolgimento nella loro promozione. All’inizio dei Novanta […]  lo stesso manager Virgin confermò la mia speculazione.”
 
Non stupisce quindi che, con cipiglio tutto teutonico, si diede da fare il doppio sgomitando con i “vecchi”. Come nelle interviste in cui KS si pone come interlocutore in grado di giudicare l’ultimo secolo di musica con obiettività. Senza risparmiare colpi bassi: “nella ‘musica concreta’ o cosiddetta avanguardia (Stockhausen, Xanakis, Pierre Schäffer) si trovano vere e proprie orge sonore, e non è mai ben chiaro se il suono è consciamente ricercato o trovato per caso? Questa è musica facile da fare.”
 
E Karlheinz Stockhausen?… una sua vera ossessione. Forse per via delle iniziali identiche, diventa una (invero temeraria) pietra di paragone per la critica unanime, dalla quale KS fece tutto il possibile per dissociarsi, al contrario di quanto fece con i Pink Floyd, indubbiamente forti ispirazioni con (ad es.) il finale di organo di A Saucerful of Secrets.
 
Stockhausen no: “Son veramente stufo di sentire il nome Stockhausen.” E ancora: “non c’è mito dietro a ‘Stockhausen.’ E’ solo che un inetto critico dopo l’altro copia questa parola magica, ‘Stockhausen.’ (…) Ce ne sono tanti di questi scrittori.” Ma il tema qui non è più la scaramuccia, è focale: “Quello che ho sentito [di Stockhausen] suona orribile alle mie orecchie ed alle orecchie e ai cuori della maggior parte del pubblico. Stockhausen forse [sottolineato mio; LOL -ndtr] è un buon teorico. [Ma] Chi sente volontariamente la sua musica? Chi se la ‘gode’?
 
Il rock aveva già mutato i piaceri del popolo: i Beatles la musica classica se l’erano mangiata, insieme alle grandi orchestre degli anni ’50 e a Frank Sinatra, che comunque con la classica aveva a che fare molto più che con il rock. Col rock arrivò pure la s/vendita dell’immagine pubblica del “ribelle” che da James Dean, via i Beatles drogati (1967/1970) Bonzo Bonham ed i… Ribelli di Stratos, arriva oggi a Johnny Depp attor-rocker multimediale.
 
I “Corrieri Cosmici” furono i ribelli tedeschi: tutti pro-tecnica. Una posa che pseudo-aggrediva direttamente l’establishment musicale dei conservatòri. Dico “pseudo-aggrediva” perché l’ossessione schultziana con la musica classica lo porta a citare, diciamo per scherzo, il suo manager factotum Klaus “kdm” D.Muller quando, parlando dell’incapacità a trovare concerti negli USA, si lascia andare: “Beethoven non ha mai suonato in America, Bach neanche. E Wagner non ha mai suonato e neppure Schubert. E Mozart non ha mai suonato in America… così, perché io dovrei?”
 
SACERDOTE
 
Quello che affascina di Schulze, e di tutta quella (in un certo senso) baracconata che fu la sparata dei “Corrieri Cosmici” è che diventò una sorta di musica “d’identità”.
 
Da lì partì una fedele messe di fedeli ascoltatori che poi esplose in tante direzioni. Per onestà intellettuale bisognerà anche ammettere che questi suoni “cosmici” tanto nuovi non erano. Sì, il vocabolario del synt stava sviluppandosi ma, se vogliamo trovare a Schulze una parrocchia, questi suoni erano miscelati in lungo e in largo con una mielosa soluzione d’assonanti armonie che rendevano gli oscillatori carezze acustiche, per non citare l’occasionale momento di tensione armonica subito risolta per buona pace delle orecchie meno allenate (alle quali parevano d’obbligo pure il borbottio e crepitio e il 'wah wah al ralenti' dell’envelope filter del “synthi" e l’effettistica di prammatica.)
 
“Esperimenti”, davvero!, che oggi suonerebbero un po’ inutili. KS seguì (come Froese) l’evoluzione della tecnica musicale elettronica come pochi altri, grazie a tempestività e buon budget, surfando sull’onda dell’inaudita freschezza di quei suoni, mentre dall’altra apprendeva sempre di più della tecnica musicale, creando così l’anacoluto logico di un componente storico della space music che diventa assai ben più espressivo e musicale con gli anni che passano (per me dall’80 in poi; ma pure KS invita gli intervistatori a non fossilizzarsi sul suo passato: “bisogna guardare solo avanti”, dice.
 
E al top della sua lista di dischi preferiti c’è sempre “il mio ultimo disco.”) Persino quei miscugli pop-ambient-rock che prendono dalla CTU di Deodato, dal soft-jazz tedesco e chissà cos’altro, stentano a sfigurare rispetto ai seminali “Irrlicht” e “Cyborg”. Il tutto grazie a strumenti sempre più automatici, capaci di espandere la creazione di suoni inauditi per due decenni e oltre, con incrementi marginali decrescenti com’è nella logica di tutte le cose. Prima questa era una questione dominata da incubatori di “eccellenze intellettuali” come l’IRCAM parigino, da roba da sussidi statali. Ora diveniva popolare. In tutto questo, ritagliarsi uno spazio anche nella musica prodotta (e non ristampata) 40 anni dopo il suo inizio rappresenta il vero successo di KS.
 
Ispirati dai sacerdoti seminali (che procedevano compatti nei Settanta colla loro parrocchia quasi 100% tedesca), via via musicisti più giovani, condotti dal proprio gusto musicale, hanno fatto sbocciare nuovi stili, tirando questo o quel filo narrativo di queste prime intuizioni “cosmiche”.
 
Non è difficile rintracciare in queste musiche i progenitori della cs “New Age Music”, così come dell’elettronica-pop di JM Jarre e Vangelis, o quella sequencer-friendly di Moroder + biondina dei Blondie, o certa Ambient de-concettualizzata, senza scordare la techno e i suoi meandri. E oltre.
 
Ciascuno stile ha preso dai “Corrieri Cosmici” quel poco che loro serviva, ma quella musica che KS (inteso come parte per il tutto) aveva intrecciato nei primi Settanta, nella sua semplicità quasi imbarazzante, è divenuta oggetto di culto e venerazione da parte di una ristretta fetta di fedelissimo pubblico. 
 
Come ammette dicendo di ascoltarli (commentandone insieme al suo doppelgänger Froese), una parte della ricerca di Schulze è proprio tesa a conquistare il pubblico come fecero ABBA e Michael Jackson: i primi innestando una marcia rock/space-age (cfr. le loro tute) al folk nordeuropeo, il secondo candegginando il funky per le piste da ballo dei WASP (bianchi, anglosassoni, protestanti); entrambi con una resa musicale e una produzione ineccepibili.
 
[KS dirà invece di non avere nulla tratto da gente come Terry Riley, ma lo correggo: quando preparavo questo pezzo, in auto ascoltavo in loop il 1° disco di “Persian Surgery Dervishes” e vi assicuro che potete fare dei loops di frammenti di quel concerto e usarli per arrangiare un intero pezzo “à la façon de” KS.]
 
Con un pubblico affamato di musiche d’impatto (e austro-tedesche!) come quelle scelte da Kubrick per “2001” (anni fa scrissi, in “Midnight, you and the rendez-vous”, dell’impatto sul ‘popolo’ del Bel Danubio blu sparato sopra immagini di stelle), Schulze e i TD divennero le ideali colonne sonore per intensi viaggi mentali ovvero, più prosaicamente, ideali snacks aurali per stati alterati di percezione da psicoattivi allucinogeni.
 
Uno snack aurale di tipo particolare, però. Assonante, piacione, mai ostativo al buon orecchio. Come disse KS, il suo lavoro era “cercare nuove possibilità aldilà dei suoni noti di un organo e di una tastiera, senza dimenticare che armonia e melodia sono importanti parti della musica. Tristemente, queste regole sono state in parte disattese dai compositori di avanguardia.”
 
Non è difficile trarre la conclusione che, in un certo senso, Schulze (qui più di ogni altro corriere cosmico) abbia sentito su di sé una sorta di responsabilità storica nell’aprire suoni letteralmente inauditi ad un pubblico che non cercava la soddisfazione intellettuale che si può provare ad un concerto di Cage.
 
No di certo. A lui e al suo pubblico garbavano invece note assonanti e qualche momento di tensione, che poi risolvesse in soluzioni armoniche già sentite: “Uso alcuni collages di suoni che mostrano la discrepanza tra armonia e disarmonia, o più semplicemente tra armonia e suono (…) Talora devo suonare suoni aggressivi, giusto per tornare indietro ad una triade minore, che poi suona come la gloria del paradiso.”
 
Ecco un buon indizio se stiamo cercando il cuore musicale di KS. Traspira una certa disciplina ferrea nel limitare la flora musicale che fa capolino nei suoi dischi (e Dio sa se non è ampia: dallo space rock all’ambient spaziale, via pulsanti ritmi sequenziati, soprani, baritoni, fagotti, sax soprano, e una enorme onda di effetti da “sintetizzatore” o “synti”, secondo la sua nomenclatura.)
 
“Il sintetizzatore è stato concepito per creare toni e suoni aldilà del conosciuto” diceva KS e “questa libertà sconfinata dovrebbe essere utilizzata in supporto a principi e regole musicali. Si, ogni singolo suono o rumore può essere chiamato musica, ma usarli giusto a caso è in contraddizione con la mia estetica musicale.”
 
Schulze, differentemente da Froese, si diede a smussare le spigolosità di quegli intervalli acusticamente ostici che tedeschi ed est-europei avevano abbondantemente utilizzato (eg Penderecki, Ligeti, tutti i dodecafonici, etc;) o peggio gli squittìi musicali della musique concrète. La sua architettura musicale spesso utilizza lunghissimi accordi sui quali rovesciare una selva di abbellimenti acustici (o meglio, elettronici) che a certuni sembrano musica celestiale, ad altri un campionario delle possibilità del “synti” a mo’ di Fiera degli Strumenti Musicali (cosa che pure fece; ad es. con la Alesis alla Fiera di Francoforte del 2005, con tanto di disco promo regalato agli astanti: ”Ion.”)
 
La chiesa alla quale KS dedicò l’intera vita con dedizione ammirevole fu quella di fondere la cultura schmaltz e schlager - nel senso di suoni per utenti di una musica veramente popolare e strappalacrime - e portare il tedesco medio avanti di una generazione, nei suoni dello spazio e del futuro (tramutatisi poi magicamente in suoni da spa e sale yoga.)
 
Quello che Kenny G fece nel soft-jazz (roteare note piacevoli senza alcuno dei problemi architettonici che giravano nella testa di Coltrane quando si accingeva ad improvvisare), nella musica cosmica fece KS come e forse più propriamente dei Tangerine Dream, con quel loro polso pop/battente. Batterista poi tastierista, KS creò atmosfere più che opere (anche se sì, le fece: cfr. “Totentag”), mantenendo un’ostinata coerenza nel preferire suonare per i casi suoi:

Sono un musicista. Mi piace anche [sottolineato mio] suonare con altri, a volte di più, altre di meno. M’è successo alcuni anni dopo di suonare ancora con Edgar e Chris [Tangerine Dream] e con Manuel e Hartmut [Amon Düül]. Non c’è niente di speciale dietro a ciò, o rispetto a ciò.
 
Se Miles Davis diceva che la sola musica è dal vivo, KS fu uomo da studio e da solo: un solipsismo esecutivo che traspare anche quando invita altri musicisti sotto lo pseudonimo Richard Wahnfried. Sfruttando le possibilità del multi track recording al massimo, riempiendo tutte le piste come mosaici, per poi operare un lavoro di sottrazione.
 
Eppure si sente che, quando suona, vi è un suo autentico piacere che ci assicura sul fatto che con gusto abbia traghettato il mondo pre-elettronico verso quello di oggi. Un intransigente, spigoloso, solitario ma tutto sommato onesto musicista; al punto di ammettere d’essere entrato in musica per la (ehm) figa e la (ehm) poca voglia di lavorare.
 
 
CIBERNETICO
 
Non posso omettere di parlare dell’armatura da fumetto di guerriero giapponese che contorna Schulze nella sua intera vita pubblica. Una muraglia di lucine, bottoni, interruttori, cursori, jack e fili intrecciati che lo avvolge in un abbraccio caldamente elettrico è quanto l’attornia nelle sue fotografie in palco, in studio. Anzi più che una muraglia assomiglia ad un altare con tabernacolo 2.0.
 
Inconscia (?) pervasiva promozione del “progresso tecnico” come nuova religione, il “sacerdote cibernetico” è purtroppo nulla senza le sue macchine, ben alimentate e accordate, come spiega in varie interviste. Perciò quello che si stratifica specie nei primi tempi di KS è un dettaglio timbrico che, senza il sintetizzatore, avrebbe difficoltà a stare in piedi. O riuscite a pensare Brad Mehldau rivisitare lo striminzito tema del pezzo iniziale (ovviamente intitolato Space Song) di “Go Live In Paris”, live di un “super-gruppo” dalla mini-melodia?
 
Fare registrazioni nei Settanta che oggi sembrano demo di sintetizzatori fu questione di una volontà pazzesca di riuscire: “non c’era nessuna ‘idea’ dietro. Devi pensare che facemmo il tutto senza alcuna delle visioni prospettiche che abbiamo oggi. Lo facemmo e basta. E ci divertimmo nel farlo.”
 
Che il loro cammino fu in discesa lo spiega il fatto che fu una sostanziale promozione Tecnica. Una promozione edonica di una nuova generazione di suoni, ma non solo: non a caso uno dei suoi primi dischi si chiamava “Cyborg.” Sappiamo noi, 50 anni dopo, cosa voglia veramente dire flirtare coi cyborgs (e la I.A., suo motore.)
 
Quella che Stefano Bianchi chiama la musica più umana fra tutte, per una trentina di anni è stata una questione di affinamento di generatori di suoni e imparare come gestirli. I ca. 150 titoli di uscite a nome Schulze hanno scandito queste evoluzioni, ritenendone la parte più orecchiabile, più schmaltz.
 
Sostenute da (e sostenendo a sua volta!) quella voglia di storie extra-terrestri che il “2001” di Kubrick aveva acceso. Una fame di colonne sonore ideali per viaggi galattici: mentali o tutt’al più cinematici. Se necessario, da rivendere anche come colonne sonore per film soft-porn-thriller (1976: “Body Love.”)
 
Checché ne dicesse lui stesso (cfr. citazione all’inizio), ovviamente Schulze faceva solo musica elettronica. Anche se il primo disco (“Irrlicht”) il website ufficiale lo definisce “Esperimenti iniziali con droni d’organo”, quel tipo di sperimentazione con uno strumento elettrico divenne parte seminale de “la storia delle macchine elettroniche.” Anzi, il disco era sottotitolato “Quadrophonische Symphonie für Orchester und E-Maschinen” che forniva già i tre punti cardinali della narrativa Schulze che conosciamo: “quadrofonica” (Grande! ma chi ascoltava in quadrofonia?) “sinfonia per orchestra” (condotta dal Sacerdote, “Direttore” di musica seria) “e macchine elettroniche” (Cibernetico).
 
Quest'occhio competitivo e costante verso la musica classica era per aggiungere sacralità alla propria immagine e/o cercare di transumare il pubblico che ascoltava Morton Feldman o il gelido Berio verso “del nuovo”, altrove? Piuttosto convincere la platea ABBA che c’era qualcos’altro oltre le canzonette.
 
Difficile non trovare in polpettoni Schultziani come Ludwig II von Bayern (quasi 29’ di patchwork tra Beethoven e Schulze, già nel ‘78) o quello di Ludwig Revisited (21’ dal vivo a Budapest nel 1982 con tanto di batteria in chiave Anonimo Veneziano) una gran voglia di rinverdire le passate glorie musicali teutoniche.
 
Credo che l’interregno degli anni ’70 (e, in diminuendo, ’80 e ‘90) servì a creare ad un pubblico pop un contralto alla tradizione classica. L’etichetta di musica ‘seria’ in qualche modo parve venire scippata dai corrieri co(s)mici e più compiutamente, nel ’79, da “Music For Airports” di Eno. Poco conta che le armonie e le melodie (di KS come di Eno) non indicassero novità alcuna nelle (spesso estemporanee) partiture, e andassero a cercare timbri e arrangiamenti più vaporosi.
 
Sto ascoltando ora un concerto del ’79 di KS con Arthur Brown (quello dell’UFO) e sentire come KS costringe Brown in quello che sembra quasi un recitativo d’opera lirica mi fa pensare che l’obiettivo fosse davvero creare una nicchia di musica pop ‘seria’; certamente più seria della musica bubble-gum ABBA, ma lontano dal classic-pop di un André Rieu. Senza questo passo intermedio (che KS ebbe la fortuna di potere capitanare, insieme al suo doppelgänger Froese) la musica di oggi sarebbe molto diversa.
 
(...) 
 
Non è difficile trarre la conclusione che, in un certo senso, Schulze (qui più di ogni altro corriere cosmico) abbia sentito su di sé una sorta di responsabilità storica nell’aprire suoni letteralmente inauditi ad un pubblico che non cercava la soddisfazione intellettuale che si può provare ad un concerto di Cage. No di certo.
 
A lui e al suo pubblico garbavano invece note assonanti e qualche momento di tensione, che poi risolvesse in soluzioni armoniche già sentite: “Uso alcuni collages di suoni che mostrano la discrepanza tra armonia e disarmonia, o più semplicemente tra armonia e suono (…) Talora devo suonare suoni aggressivi, giusto per tornare indietro ad una triade minore, che poi suona come la gloria del paradiso.” 
 
(...)
 
 

 

 
Pubblicato su Blow Up, numero di luglio/agosto 2022