24 gennaio 2025
"24 Hours of Eno"
La celebrazione del “bastardo piagnucoloso"
Sono alla diciottesima ora di visione/ascolto di “24 ore di Brian Eno” un prodotto strimmato a pagamento dalla Anamorph. E’ un loop di 4h 30’ di programma ripetuto per 24 ore e ad ogni reiterazione cambia composizione, durata e ordine dei frammenti audio-visivi che sono il database dello spettacolo.
Come diceva Bob Ashley sulle sue “Private Lives”: un’opera da ascoltare quando ti prepari un panino o fai altre faccende.
Con inframmezzata una dormita di buone sei/sette ore, in questo caso la musica ambient è diventata la colonna sonora di casa mia. Come è - da vent’anni - colonna sonora da sale di attesa di day hospitals o chirurghi estetici, musica per spa e sale di in cui (per parafrasare McLuhan) “il massaggio è il messaggio.”
Come sempre con Eno, la musica vende concetti e - dietro questa 24h - si vende l’idea del “generativo” ovvero dell’algoritmo della Macchina che diventa arte. Un po’ come in quelle Chance operations cagiane, in questo caso ‘il computer’ mischia a caso materiale video eterogeneo per ricomporre filmati (diciamo) ’sempre nuovi.’
Il materiale usato è nel programma: un inedito documentario di 90’ “Eno”, spezzoni d’epoca tratti da un pre-quel già proiettato alla Biennale, una nuova composizione audio-video di Eno, la prima d’un filmato di un concerto di Laaraji, interviste con regista e troupe del documentario e nuovi elementi audiovideo-grafici.
L’idea è descritta come “un continuo fluire di arte, musica, e video per 24 ore di fila. Mostreremo sei versioni uniche dell’acclamato documentario generativo “ENO”, oltre a molteplici dosi di parti di “NOTHING CAN EVER BE THE SAME” che è il video di generative art firmata da Brendan Dawes and Gary Hustwit e basato sulle foto, interviste e filmati originali d'epoca da fonti usate nel documentario “Eno" seppure rimixate “in un febbricitante sogno senza fine.”
Quella del “sogno senza fine” è un’iperbole per il documentario, ma calza a pennello per definire il concerto di Laraaji, che ho visto ieri sera (in prima mondiale) intitolato “IT'S ALL LIGHT: LARAAJI AT NINE ORCHARD” (ovvero registrato nello spazio posto sulla torre dell’hotel Nine Orchard di New York, nella Lower East Side.)
Filmato di musica ‘oltre la ambient’ perché se Laraaji - anche al recente Tiny Desk concert - ama suonare ancora il solito zither martellato dal suono pulito pulito, riverbero a parte, in quest’occasione dal vivo usa una dozzina di pedali (distorsioni flanger phaser delay etc.) quello che mi pare un moderno Gizmo (un aggeggio che mette in vibrazione le corde ad lib), oltre che una kalimba elettrificata.
Musica che intriga parecchio e sta al primo disco di Laaraji per la Ambient di Eno quanto il Miles Davis di “On The Corner” stava a “Kind Of Blue.” Un concerto afoso, un soundscape abbastanza unico (con voci, risate, cantato e rumori di acqua sfrucugliata) e vivente grazie anche alle deliziose visualizzazioni psichedeliche inventate dal Liquid Light Lab, di cui ho riportato qui alcune foto, perché ne valgono la pena.
Tra le stranezze aggiungerei le “sessioni di ascolto” di Devon Turnbull (creatore delle casse OJAS) in cui sul piatto gira il vinile di “Plateaux Of Mirror” o di “Discreet Music” e ad ascoltarli il dettaglio inauditi. E tra le novità aggiungete la première mondiale di “BLOOM: LIVING WORLD,” un “video piece” firmato Brian Eno e Peter Chilvers.
Man mano che le 24 ore si dipanano, si manifestano le ripetizioni, nonostante il differente “missaggio,” che consente ai realizzatori di parlare di questo “documentario generativo ENO” come di qualcosa sempre diverso. Ed è all’avvicinarsi delle 24h di riproduzione di musica e discorsi Eniani - sempre a cavallo tra raffinato, “tardo lib” e tecnofilìa - inizio a formarmi due idee, figlie di questo florilegi/Eno.
Una è che la kermesse di 24h espliciti il desiderio di questo 76enne “produttore bastardo piagnucoloso” (come si autodefinì nel 1994) di conficcare solidi paletti miliari a punteggiare il suo contributo alla storia della musica pop, l’imperituro spazio che merita nel rock. Per i suoi fans odierni (di certo intellettuali, magari un po’ tardo-lib e spesso tecnofili) questa kermesse crea il definitivo strumento agiografico. Opera indispensabile per coltivare la brand/Eno in uno spazio economicamente significativo.
Il documentario e i frammenti aiutanop a rinfrescare la memoria dell’impatto/Eno nel rock. Così le prove pre-Eno degli U2 suonano orripilanti… E Eno lascia intendere che se lui non avesse messo Fela Kuti sul giradischi, David Byrne mai avrebbe immaginato i cori di “Remain In Light.” Persino Bowie arriva a dire che, nonostante molti non avessero chiaro cosa facesse Eno, comunque la sua presenza in sala di registrazione cambiava i giochi.
Il che introduce la seconda ipotesi, che mi porta a verificare gli effetti della re-iterazione continua di musica senza spigoli e sostanzialmente diversa ma molto simile a sé stessa. Ovvero che man mano che questo l’ascolto va avanti, l’ascoltatore espande uno spazio emotivo che negozia un senso di appartenenza calmo, riposante: come fosse un sedativo aurale (probabilmente il primo motivo alla base del successo della “ambient.”) Eno, non a caso, altrove afferma che è proprio “provocare appartenenza” il motivo fondamentale dietro ai gusti musicali che ciascuno di noi sviluppa.
Eno mi riporta alla mente i Settanta, un periodo così lontano da oggi che… si poteva fare successo teorizzando “musica rock concettuale.” Così si disse che la ambient veniva fuori da Eric Satie (le cui Gymnopedies sono spesso citate come ispiratrici del genere; ma allora i primi 3’ dell’Anello dei Nibelunghi, i.e. il prologo del “RheinGold” wagneriano, ha inventato il minimalismo?!) E si scomodò Marcel Duchamp perché, ricorda bene Eno, aveva messo un oggetto povero - un pisciatoio - nel museo.
Eno sul pisciatoio di Duchamp aggiunge anzi il ricordo della volta in cui avevano esposto il ‘pissoir’ (per dirla in francese) in un museo britanno e lui andò a versarci della pipì Eniana. E visto che l’opera era sigillata in una teca, il Malandr/Eno non poté sortir fuori il pisell/Eno bensì dovette versar l’orina in una bottiglietta e solo poi - con la cannuccia - versarla dentro una fessura della teca. Se tutto poteva/doveva essere arte, quello era un pisciatoio - e come tale meglio pisciarci dentro, ricorda. Tutto cose senza più senso, oggi, anzi sul confine dell’arresto. Più edificanti, in tempi di deficit d’attenzione, i suoi ricordi su quelle famose “Strategie Oblique”: le originali erano memo scritti su tavolette di legno, solo in seguito commercializzati come intelligenti carte da Frate Indovino.
“24 ore di Eno” è insomma un “Greatest Hits” e un sofisticato prodotto di media art che chiede amore per via della propria naiveté (esecutiva, innaffiata con grande Tecnica produttiva) e buon gusto. Perché, ricorda Eno ad un punto: ‘“non devi suonare roba, bensì realizzare idee.” E di come si ritrovi a “piantare il seme di una musica e lasciare che fiorisca da solo [rectius: con l’algoritmo della Macchina.]
Tra le interviste gli spunti più interessanti indirizzi li trovate sul come costruire un timbro col synt: io creo soundscapes, dice, cioè “uno spazio [sonoro] in cui voglio essere.” Qui è il vero cuore della filosofia eniana: immaginazione timbrica che concepisca suoni come riflessi(oni) in progress del proprio carattere. Purtroppo ciò include legittimare l’imbarazzante collaborazione con Pavarotti (sul quale rimando all’ultima nota a pie’ pagina del libretto “Beatlemania”) divenuta - assolutamente inutile - colonna sonora del tragico scenario dei Balcani anni ’90, insieme a quel… “brutto-ma-Bono.”
L’opera soffre (o si beneficia) di brevi schermi neri e silenziosi, ma quasi sempre è monopolizzata da un continuo mash-up di suoni e immagini elettroniche dal ritmo/montaggio ossessivo-compulsivo, contrastante col calmo incedere della traccia sonora. Curioso che musiche ambient, cioè trame fatte da riverberi infiniti e filamentose note lunghe decine di misure, vengano commentate da immagini tendenti al costante movimento: perché questo gap parallattico?
Stando all’indicazione proposta sullo schermo ‘dal vivo’ la “24 Ore di Eno” è stata seguita da una platea globale di 900/1900 persone max. - che è un altro gap parallattico tra produzione sterminata e pochi fans. Il motivo? Boh.
Non so, ma in un momento particolarmente aulico del documentario, Eno esorta a confrontare “una serie di problemi separati” (ecologia, giustizia, relazioni con il pianeta ecc.) E apoditticamente: non dice neppure cosa fare ma promette - con fare Trumpiano - un mondo “nuovo.” Sì, ma quale esattamente? Boh. “Se ce la facciamo attraverso tutto, ci troveremo in un mondo migliore, molto migliore.” Cioè? “Sarà un nuovo posto.” Il tutto condito con toni quasi alla Charles Manson, quando parla di… arrendersi: “arrendersi è la perdita dell’ego - smettere di essere te stesso - arrendersi è l’idea di come adattarsi per non venire distrutti.” Capìta l’antifona?