Tags: Pat Metheny, Leonard Bernstein, scienze cognitive , musica.
Come ha spiegato Slavoj Zizêk ci sono due cose nelle quali l'Intelligenza Generale Artificiale non potrà mai essere alla pari dell'uomo: inventarsi rituali scaramantici a cui credere e esclamare, credendovi, parolacce.
CONTRABANDA
Idea come volontà, non numero
Gli attestati di stima per i miei scritti fanno sempre piacere. Uno però che ricordo con maggior piacere venne dal filosofo Franco Bolelli (1950-2020) noto per i gusti attenti. Fu quando mi scrisse “… solo tu potevi spingermi a riascoltare Pat Metheny dopo trent'anni… :-)”
Era il gennaio 2014, a valle di un mio articolo per Blow Up #199 sul chitarrista di Lee’s Summit, Missouri. Fui felice perché Franco mi aveva ascoltato nell’invocare rispetto verso Metheny e quella sua incredibile dedizione alla musica.
Franco m’è rivenuto in mente ascoltando una “conversazione” a San Diego del 2018 - per la “Society for Neuroscience” - tra Pat e due “neuro-scienziati.” Vi ero arrivato attraverso un’altra conferenza, del 2008 a Washington, tenuta da Ani Patel, psicologo specializzato in neuro-scienze cognitive applicate alla musica.
Patel frequenta le teorie sulle similarità tra linguaggio e musica e, più in generale, naviga quelle acque (ignote ai più, ma assai frequentate dai cognitivisti) che ricercano la musica con attenzione scientifica. Un interesse che pare mosso da quella volontà neo-positivista d’imbrigliare con numeri e formule i processi cognitivi umani, specie quelli capaci di profondi effetti.
Fu Leonard Bernstein (nel ’73) a immaginarsi vi fosse (non mera probabilità bensì) una “profonda, primordiale ragione per cui strutture discrete di quattro [ehm: non proprio] identiche note” albergassero in compositori diversi come “Stravinski, Ravel, Bach, Copeland e la Uday Shankar Dance Company.”
Cercava insomma una “grammatica musicale mondiale innata.” E -nonostante come direttore d’orchestra si desse “con tutto il corpo”- mostrava di nutrire sentimenti più ‘aridi’ verso l’analisi musicale, condividendo che all’estetica dovessimo unire scienza e matematica. E ipotizzò una teoria musico-linguistica che tramite Noam Chomsky vedeva, in pratica, la Musica al servizio della Tecnica, o -forse- viceversa.
Patel forniva -nella sua conferenza del 2008- un’interessante carrellata sul tema che arrovellava Bernstein. Partendo dai ritmi linguistici, basati sul ritmo più regolare (inglese/tedesco) o meno (francese/italiano) degli accenti sillabici, passando per le “riduzioni delle vocali” (frequenti ad es. in inglese: mis’ry per misery, ma più ridotte in italiano o francese) e finendo con il “normalised Pairwise Variability Index” (nPVI) quale misura dello “swing” di una lingua, basato sul contrasto delle durate di gruppi di due sillabe (o, in musica, due note) contigue.
Misurandolo in oltre 300 temi (strumentali) musicali francesi e inglesi, ricordava, l’nPVI si è dimostrato nettamente più alto nella musica degli autori inglesi rispetto a quelli francesi, così come accade nelle due rispettive lingue. Il risultato ‘autorizzava’ l’ipotesi che gli schemi linguistici s’intrufolassero nella musica; l’ipotesi non si dimostrò -ahimè- generalizzabile e, in poche parole, ad oggi non esiste ‘prova’ che gli schemi linguistici governino l’espressione musicale.
Dal punto di vista cognitivo, Patel aveva però trovato (attraverso imaging cerebrali) che pur se la sintassi linguistica e quella musicale erano basate su elementi distinti, nella fase di elaborazione le due convergevano sulle medesime risorse cerebrali. In che modo ciò avvenisse era… questione per il futuro.
Dieci anni dopo, nello scambio pubblico tra Metheny e i due cognitivisti, si notava -sulla questione della creazione musicale- come gli scienziati fossero intenti ad estendere nuovamente l’arco temporale stimato per venirne a capo. Soprattutto, la presenza di Metheny aiutava questi ‘conta-piselli’ ad ascoltarlo, calmando la loro sete di razionalità che ridurrebbe a “fatti” enumerabili persino la musica. Sete che trovo sinistra, poiché togliere mistero alla vita scovando un perché a tutto serve solo chi ha smania (e pensa) di controllare tutto. Cioè, tipo: l’anticamera della camera ardente della diversità.
Metheny anche a San Diego si confermava uomo fuori dall’ordinario perché esprimeva con serenità la straordinaria potenza che possiede l’uomo di genio quando applica la propria totale volontà su un’impalpabile forza come quella musicale. Volontà che consente risultati incomprensibili alle macchine ancora oggi e, se il buongiorno si vede dal mattino, forza che la tanto propagandata “IA” mai riuscirà a superare, ma solo ad imitare.
Che era l’idea del mio originale articolo su Pat, in dicembre 2013: musicista jazz amato ed odiato per il suo timbro “soft” e il suo fraseggiare melodico, Metheny trascende i concetti di bello o brutto assestandosi in uno spazio mentale puro. E m’ha toccato il cuore sentirlo parlare di quanto i suoi lo considerassero prossimo al caso patologico, quando smise di studiare in seconda media dedicandosi alla chitarra dieci, dodici ore al giorno. Una fede, volendo, religiosa, che a diciannove anni lo portò però a suonare come nessun altro al mondo. “Ero un illetterato” e aggiunge di sé: tutto quello che so l’ho imparato dalla musica. Eppure parlando di melodia (il lato per lui più evanescente della didattica musicale) in quella di Antonia Pat trova una struttura naturale, un frattale in cui una piccola parte contiene tutto il resto.
Pat pare spingere la sua “ossessione” sino a difendere l’atto musicale dal tentativo di ridurlo a “fatti” che una stringa di numeri potrà domare: quando improvviso, risponde ai due quants, non mi faccio tutte le domande che pensate mi faccia, penso solo ad essere “dentro” la musica. E dice anche: e non badate alle vendite! “Charlie Parker vendeva 600 dischi” e suonava in locali dove i ricchi bevevano, parlavano e non l’ascoltavano; eppure adesso milioni di persone riconoscono il suo genio.
Con ciò, come programmare il computer? Come spiegare che cantare “ohm” ci mette in sintonia con l’universo? che i maestri Sufi sono “dentro" Allah al solo lasciarsi andare ai canti che lo onorano? O che le note di Abida Parveen e gli arpeggi di Trane vibrano l’amore supremo?
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