Luca D. Majer
Caffè  Musica  ed altro  
 

Dave Stewart (1980)

 

Edizioni 1980 (sinistra) e 2009

 

Lol Coxhill (1979)

 


"Fantastico libro"
(Paolo Pellegrino)

"Un vero punto di vista alternativo su di un fondamentale filone rock. (...) Assolutamente impareggiabile nelle sue riletture trasversali di storie, di genesi artistiche, di aneddoti sulle specifiche compagini musicali che nel loro insieme formano il "tutto" del genere progressivo del continente vecchio. (...) Una bussola preziosa, una lettura salutare."
(Michele Saran - Onda Rock)

"La scrittura, rispetto alla mediocrità attuale, è ancora folgorante, degna di un Lester Bangs"
(Domenico Monetti - Nova Muzique-Musica non convenzionata)

"Con intuizioni critiche fulminanti ancora oggi"
(Carlo Bordone - Il Mucchio Selvaggio Forum)

"Un testo-base che nel corso dei decenni è stato studiato, analizzato, talvolta venerato. Da rileggere."
(Donato Zoppo)

"... è considerato la bibbia dell'argomento. E' un appassionante, informato e raffinato racconto (...) Il libro è da sempre citatissimo in internet benchè introvabile: l'annuncio nei blog della sua ri-pubblicazione ha suscitato enormi entusiasmi" (www.revestito.it)

"Se amate la buona musica o volete scoprirla, e volete entrare nel mondo progressivo (la musica anni 70), questo è il libro finora più consigliato" (The Mole - Rateyourmusic.com)

"Illuminato saggio"
(Claudio Bonomi - Quaderni d'altri tempi)

"Scritte benissimo, queste pagine trasudano passione e contagioso entusiasmo"
Guido Siliotto

 


"Piccoli cardellini onomatopeici al transistor e impulsi fermentati da un contatto casuale con la natura.
Dove inizia il divertimento e finisce la ragione, li' sorride la non-musica dei maghi geometrici"
(Al Aprile - capitolo sui Cluster)

 


Un libro-fotografia per una musica che non c'è più.

Originariamente pubblicato nel febbraio 1980, è stato ri-edito trent'anni dopo, in memoria di Al Aprile (1960-1991), venendo accolto dalla "comunità progressiva" italiana con un impressionante affetto - che ricambio di cuore.
 

- Da: "Thirty Years After" (Introduzione all'edizione 2009) - di Luca Majer

" (...) Se oggi cerco i brandelli di questa “musica rock-progressiva” li trovo in frammenti sparsi (penso al Derek Bailey di qualche anno fa, che rumoreggiava intransigente dietro alla lamentosa voce di David Sylvain). Oppure nelle produzioni Raster Noton o 12K, che riportano verso la Germania amata da Al la frescura creativa del suono: magari cambiano i timbri, ma alla fine dimostrano simile sdegno per la strada più battuta. Ed in memoria di High Tide o Mike Westbrook, di Can e Demetrio Stratos, la mia mente indietreggia per meglio ascoltare. E trovo riposanti Tony Conrad e i suoi feedback inizio ’60, alla ricerca dell’assenza della schiavitù del ritmo e delle tonalità. O mi distraggo con l’armonica saggezza delle improvvisazioni per harmonium di Georges Gurdjieff, ancor più anziane, o il ronzare da scaldabagno-ben-temperato della Trilogie de la mort di Eliane Radigue.


 La libertà che fu di East of Eden o dei Guru Guru gli anni Ottanta (e i temibili Novanta), se la sono sforbiciata, poi il bau-bau del terzo Millennio se l’è piegata in due e in quattro, corretta e omogeneizzata nel portafoglio - come l’immaginetta del santo. Quando per definire la musica del Pop Group avevo inventato (per scherzo, dalle pagine di Musica 80) la definizione “free-jazz punk inglese”, me la sono ritrovata – sfottuta, direi - in una canzone come Centro di gravità permanente. Oggi gli stili sono migliaia, ed ormai nessuno spende un istante a sfotterli tanto sembrano coleotteri da collezione e fanno paura; ciascuno spillato bene bene contro il muro, con etichetta automaticamente selezionata (ed immancabilmente: senza criterio apparente) da Gracenote CDDB: “Alternative & Punk”, “Rock”, “Progressive” e così sia.

Viene nostalgia di John Cage che diceva, riferendosi alla “musica” e al suono del traffico della 6th Avenue di New York, come la prima fosse una conversazione mentre la seconda fosse pura attività. “E io amo l’attività del suono” diceva Cage. (...)"

 

- Dal capitolo su Amon Duul - di Al Aprile


"I loro primi nastri portano la data del 1965 e raccolgono l'urlo dissennato al limite della civiltà, gli Amon Duul rappresentano il primo vero momento di frattura radicale tra il musicista e la vita esterna. E' il folklore dell'emarginazione sub-urbana, la risposta cruda e acida della disperazione alle luci vellutate dell'underground americano. Cifre di vendita irrisorie, dischi a scarsissimo raggio di godibilità in senso lato, da guardarsi forse come opere d'arte, quadri, momenti artistici componenti di una ben più grossa, involontaria evoluzione.

I tamburi di Disaster, secondo disco del nucleo/comune, sono contrastanti, le voci deliranti, gli strumenti accomunati semza un senso logico. Quale è dunque il metro di comprensione di questi dischi? Il rumore. Povero eppure mastodontico, colmo di percezioni, turbamenti. Decadenza innarrestabile dell'impero occidentale. Teatro della demolizione. Il nastro si incanta, accelera, scivola nel brano seguente. Il lato formale del prodotto-disco non ha più alcun significato ed è su questo prototipo che i primi Amon Duul in parte operano. 

Nel 1968 arriva l'immancabile giro di boa. La presa di coscienza delle esperienze del vicino maggio francese, le possibilità di uno sbocco commerciale scaturite dal festival di Essen saranno alcuni dei motivi ufficiali della scissione nella grande famiglia. Se, da una parte, il primo settore continuerà ancora per qualche tempo ad adoprarsi in chiave politico-musicale, il secondo, denominato Amon Duul II e composto da Chris Karrer, Peter Leopold e Falk U. Rogner, cercherà di accomodarsi con il rock di sapore weastcostiano e inglese. 

L'operazione dimostra non poche affinità con l'evoluzione del primo punk inglese. Ambedue infatti giocavano un'improbabile lotta contro la prostituzione del pop (e non solo...) ed entrambi, dopo un primo positivo impatto col mercato, si sono organizzati in maniera tale da rendere, vuoi più comprensibile vuoi più raffinate, le loro forme. Così, accanto ai residui dei primi Amon Duul che in Garden Of Sadosa, edito "postumo" in America nel 1971, espongono la sintesi del loro immalizzire, gli Amon Duul II di Phallus Dei danno vita ad un'opera rock di sconfinato splendore. 

Quintessenza delle visioni, simboli sciolti in laghi di suoni, fragore della vita, gnomi cosmici e profumi di culture colte in un'effervescente simbiosi di caratteri e significati. Non il pubblico del rock ma le cuffie stereofoniche di un solitario fumatore di marjiuana. Qualcose rimane del vecchio spirito: nella "suite" che dà il titolo al lavoro, le miriadi di dissennati tamburelli sboccano nel rock, duro ma denso d'invenzione quasi a simboleggiare il paesaggio vitale. Da Phallus Dei e Yeti al doppio Tanz Der Lemminge (o Journey Intro A Dream secondo le edizioni) il "sound" si fa ancora più raffinato. Ora la musica del gruppo è un calderone bollente dove navigano fondendosi rock, jazz, elettronica e sperimentalismo; il passaggio alla lingua inglese e l'asseggottarsi a modul più comprendibili a un orecchio pop fa storcere la bocca alla mandria della critica saccente. Il doppio LP è al contrario un capolavoro di primo piano nella storia del rock progressivo: una serie di fiabe oscure e celesti sapientamente modellate dall'ottimo impasto elettro-acustico e dalle voci che spaziano in entusiasmanti teatralità.

Gli Amon Duul II lavorano "dentro" la civiltà e giocano sul contatto corrosivo con la stessa ("Chewingum Telegram"), sull'evasione fantastica ("Syntelman's March Of The Roaring Seventies") e il contrasto è perfetto e ben aiutato dal mixaggio sapiente. La tecnica al servizio del cittadino.

Dal viaggio nel sogno l'atttività continuerà nella stessa precisa linea, forse con qualche concessione in più alla canzone, seppur cosmica. I dischi seguenti si chiamano Carnival In Babylon,Wolf City, e le tournèe del 1973 regalerà un delizioso Live In London, dove il gruppo, mediante la perdita di tutti i marchingegni doverosi a un "sound" tedesco, guadagna una nuova luce, forse più umana e vicina ai luccichii del pop.

Con Vive La Trance gli Amon Duul II ottengono un po' di celebrità, qualche piazzamento nelle classifiche di vendita che porterà la critica a considerarli come "il primo gruppo tedesco che ha dato un contributo reale alla scena musicale internazionale" (Melody Maker). In realtà la formazione, che era entrata nella massima punta di popolarità, era riuscita a trovare uno sbocco nel condensare in brevi canzoni della durata di tre minuti tutta la sintesi della loro ricerca rock nei campi immacolati della sperimentazione.

La musica di Vive La Trance, nonostante la dipartita di Daniel Fichelscherer, sbarcato nei lidi Popol Vuh, cattura le penne della critica di mezza europa che inizia da quel momento a concepire l'esistenza di un "altro rock" seppur ben confezionato e ben cantato come vuole la prassi del business.

Hijack sarà il "muzak" geniale del Ventesimo secolo, una musica da ascoltare in autostrada, il sogno del cemento, il risultato di un consapevole passaggio tra terra e plastica. La civiltà moderna si sta consumando, si annerisce e consuma a sua volta; esiste la merce di produzione come esiste la merce d'evasione ed è su quest'ultima, il disco, la canzone, la vinile, che Amon Duul II gioca adesso la sua ultima battaglia. Sarà per uno sbaglio di rotta o forse per voglie di gloria a buon mercato che l'astronave, per ironia della sorte, si schianterà proprio contro quella montagna del business discografico che visto dall'alto della fantasia sembra così piccola da abbattere e che proprio per questa alterazione procura abbagli e visioni.

In Made In Germany il gruppo sembra fare la caricatura a se stesso: una Marlene Dietrich da Angelo Azzurro guarda fuocata dalla copertina e i musicisti sul retro portano impermeabili scuri e capelli scompigliati, ma è la divisa dell'esercito rockstars. I testi riportano fantasie stereotipate da baraccone e la musica, alla scusa del "sogno per tutti", incappa in comodi sentieri per bocche facili: rokkettoni, violini kandidid e kratrock, un po' duro e molto "in", ma non si può evitare di rimanere perplessi ascoltando La Paloma Biana tradotta e ridotta in Krautoma.

Se Made In Germany potrebbe far pensare al debutto discografico di un nuovo gruppo dalle idee non molto chiare, i nuovi lavori e la conseguente scarsità di vendite non lasciano altra immagine di quella di un prodotto inghiottito dal sistema e buttato via. In Pyragony X e in Only Human musica gradevole, di buon gusto, che non teme paragoni con gli altari conferiti ai nuovi Genesis e simili ma poco, troppo poco, per gli sperimentatori focosi di Marylin Monroe Memorial Church.

I sopravvissuti continuano con qualche ruga in più, l'estenuante marcia ormai senza meta - e per paradosso regalano le cose migliori proprio all'attimo di guardarsi alle spalle (come nel caso di Flower Of The Orient), ma è lo spazio a tutti i costi, cielo bianco della città, ad accogliere le loro canzoni."

 

- Dal capitolo sull'UFO Club e Pink Floyd - di Luca Majer

"Tra tutti i partecipanti attivi (attivi?!) dell'UFO Club, Pink Floyd è il gruppo che, tirando le somme, ha trovato nel piccolo punto di riunione londinese migliore trampolino per la piscina del business discografico. I quattro Floyd (Syd Barrett, Roger Waters, Richard Wright, Nick Mason), smaltite le sbornie a base di gruppi scolastici (Sigma 6, Abdabs), si riuniscono col preciso proposito di violentare imparzialmente il suono rock pulito pulitino.

S'incominciano a far conoscere nella primavera del '67 con una serie di concerti per l'Inghilterra: ma è l'UFO che vede in prima persona i primi esperimenti Pink Floyd, ancora imberbi applicatori delle luci stroboscopiche alla propria musica, ma, proprio per questi acerbi tentativi, così avanti rispetto a tanti altri gruppi rock.

Le droghe? «Circolavano così tante droghe e acidi in quei giorni che credo nessuno possa ricordare il ben minimo particolare di qualsiasi cosa accaduta» (Roger Waters; intervista a Zig-Zag). E in un momento ove i ricordi si ubriacano, all'uopo tornano utili i reperti discografici e l'aneddotica varia. Così, accanto alle prime fughe galattiche di chitarre scordate e organi mal-temperati, si viene a sapere di applauditissimi acts con luci e vapori e trame armoniche semplici semplici e dimensione temporale sfasata/dilatata. Concerti memorabili per l'esigente spettatore, pane per sperimentazione sonora.

The Piper At The Gates Of Dawn sconcerta per la determinazione: accanto a favole pop strangolate (Flaming) si ascolta Pow R. Toc. H (Power To Cage?) con la voce/rumore e l'organo magnifico, o Interstellar Overdrive (chitarra+ rumore + libertà + rock), che dà il via alla sperimentazione sonora pura, del terreno/suolo suono studiato con occhio rock. Syd Barrett dai critici è più volte indicato come geniaccio del gruppo: certo è il componente più "sballato" e, come tale, con le sue visioni e le distorsioni paranoiche aiuta molto i compagni a valicare le frontiere del "cuore del sole". Lo stesso sparirà all'indomani del primo album, inghiottito da un "viaggio" troppo buono, insalutato ospite (il gruppo, fa sapere, gli preferisce l'ex-maestro di chitarra di Syd, tale David Gilmour), salvo riapparire, di tanto in tanto, con un vasto campionario di musica dell'assurdo, elefanti effervescenti mischiati a mescal e cliniche psichiatriche.

A Saucerful Of Secrets esce nel '68: è la conferma del nome Pink Floyd nel carrozzone dei preveggenti. Barrett è quasi del tutto assente (giusto Jugband Blues), ma il subentrato ammiraglio Waters fa sua la tematica del "diavolo in musica" e appresta, complici gli altri tre, continuazioni della linea dura alla Syd Barrett. Il brano che dà il titolo al disco, in particolare, è una giungla di suoni incredibili e undici minuti veri. Tutto è lì: il timpano, la reverse recording (sulla scia della beatlesiana Rain), l'organo impazzito, il piano dilaniato, il mellotron a coro. La confusione esterna entra nella musica ed è il caos: se però, ad esempio, nei contemporanei King Crimson il caos è rigidamente regolamentato, nel Floyd un riff si sovrappone all'altro senza troppe logiche conseguenze.

È Ummagumma a presentare il gruppo nel suo essere vivo: la schizofrenia della copertina, con quell'immagine quattro volte riprodotta e quattro volte sempre diversa (cos'è, quadrofenia?) si propone speculare rappresentazione della musica. Oltre al disco live il gruppo aggiunge un disco autogestito in parti uguali dai musicisti: ed è qui che si trova maggior spunto. Non c'è la canzone di successo ma richiami alla tradizione colta (Sysyphus pt. 2) e il rumore come musica e l'improvvisazione libera e suoni vivi registrati sul "prato di Grandchester": per l'ascoltatore non esiste più il gruppo rock, ma "un" gruppo, sconsideratamente spostato in favore della ricerca del suono.

Come tutte le belle storie, anche Pink Floyd ha una fine: essa verrà quando il gruppo, esaurite le riserve di hashish e LSD, gettate pipette e siringhe, abbraccia la causa della botte piene con moglie ubriaca, partecipando a un film contro gli abusi della droga (More), radendosi frequentemente e partecipando a un corso di buona dizione inglese. Atom Heart Mother è lì pronto - siamo solo nel '70 - ad annunciare, sezioni di fiati alla mano, l'avvenuta conversione: le reminiscenze dei fasti passati tramano ovviamente al di sotto della costruzione principale, che si dimostra però essere un buon "popular rock", quello da fischiettare sotto la doccia alla mattina (Summer '68), un po' come la vecchia Bike di barrettiana memoria, solo maggiorenne e senza acidi lisergici in corpo.

Proprio i dischi della maturità (da "Atom" giù fino a The Wall) sono quelli che più faranno incattivire l'ex-fan dei Pink Floyd: al gruppo si rimprovera l'imborghesimento, l'asservimento del proprio suono a mamma EMI, ma a ben vedere, quello che più indispone è questo suono perfettamente rock, limato e curato nei particolari. Più che la banalità delle proposte di quelli che perfino Melody Maker, ai tempi di Animals, chiama i Punk Floyd, irrita il sugo col quale l'intruglio è servito; un suono stupendo, una capacità di colorare polpette quale nessun altro complesso rock possiede.

Il disco-funk di Another Brick In The Wall pt. 2 è lì per celebrare l'anniversario decennale del tradimento: se vecchi amici forse hanno da tempo rivolto altrove le proprie smanie di novità, nuovi fans, in rapporto di dieci a uno, vanno sostituendo le stanche schiere. Alla benzedrina si preferisce la Fanta.

Come In Number 51, Your Time Is Up, in Zabriskie Point di Antonioni, commentava stupendamente lo scoppio del frigorifero del sistema, del guardaroba dell'ortodossia della società; Breathe è la colla per la ricostruzione del tutto; Don't Leave Me Now la riacquistata credibilità. Signore, perché hai abbandonato loro?"