STRATEGIE DI ROTTURA
Het 8 - Gerusalemme ha peccato gravemente, per questo è divenuta un panno immondo; quanti la onoravano la disprezzano, perché hanno visto la sua nudità; anch’essa sospira e si volge indietro.
Iod 10 - L’avversario ha steso la mano su tutte le sue cose più preziose; essa infatti ha visto i pagani penetrare nel suo santuario, coloro ai quali avevi proibito di entrare nella tua assemblea.
[Lamentazioni di Geremia]
16.000 ANIME nel Limburg più remoto della Belgique fiamminga, Neerpelt: in bilico tra Fiandre e Vallonia, non lontano da quel fazzoletto della nazione che invece, però, parla in tedesco. E poi la Germania, a venti minuti d’auto. E l’Olanda di Valkenswaard, a dieci minuti a piedi...
Il paese natale di Wim Mertens, figlio e nipote di musicisti, classe ‘53. Il quale studia al conservatorio di Bruxelles e inizia come critico e musicologo una carriera di scrittore terminatasi nel 1980. Con un libro rimasto fondamentale sulla “musica minimale”- l’introduzione gliela scrive Michael Nyman.
Lo stesso anno Wim inizia a registrare su vinile le sue composizioni arrangiate per piano e chitarra (che suona) e piccoli ensembles (specie fiati e archi). Dal 1982 Wim aggiunge nelle sue composizioni la propria voce da controtenore, che usa anche in falsetto per cantare improvvisazioni e variazioni melodiche in una lingua inventata, composta “con cura artigianale” e simile ad un solfeggio.
Il tutto in un contesto diatonico preda dell’aleatorio: della nota che si accende e si spegne in un istante, che un attimo fa non era e ora non è più. Preda della “strategia della rottura”, di cambiamenti drastici e inattesi, accompagnati da un’infinita leggedria di scrittura e dalla gioia che sta nella ripetizione di una musica tramandata da generazioni.
La musica di Wim si distingue per quella “sua voce “ attratta dalla “complessità della semplicità”. Nel sentirlo parlare il suo dinamico non-sistema interpretativo, continuato senza cesura per 35 anni, appare come la biblioteca infinita di Borges, con un imponente schieramento di rimandi, letture parallele - oblique a sostegno di una rara, irrazionale serenità creativa certamente non più minimalista che pop, o classica, o aleatoria.
Alcuni passaggi armonici o melodie possono ricordare Nyman o Einaudi, oltre che Glass e Cage, ma Mertens va oltre oltre il classico, o il minimalismo e certamente non è New Age. E canta. È, in un contesto “classico”, tutto quello che potete immaginare di più sgranato ed orecchiabile con la pazienza di certa musica ripetitiva e l’intimità assai riservata, quasi melanconica, che è nord-europea.
Un pezzo come We are the thieves conclude quasi dalle parti degl’ABBA, quando invece The Fosse ricorda Wild World di Cat Stevens se mai venisse scelto di servirla in un guazzetto sinfonico. Pezzi come Wound to Wound o la celeberrima e anodina Struggle for Pleasure sono nella loro semplicità dei perfetti ingranaggi di orologi eterni, giocando con i raddoppi di tempo e gli arpeggi e le melodie immortali.
Quando tocca qualcosa Mertens l’arricchisce comunque: con il gusto di un’Europa fiamminga madre della polifonia del ‘500; o con certo oscuro minimalismo europeo figlio di Dominique Lawalrée - l’equivalente dei colori pastello in musica. O una ricerca alle frontiere del silenzio, come succede nella mastondotica serie Qua. La sua ricerca musicale è tanto dialetticamente aware rispetto alla storia europea, quanto lontana dal minimalismo inflessibile di Reich e Glass.
Per chi non lo conosce imperdibili gli LP dal live “Epic that ever was” in Portogallo a “Die Heisse Brei” e alle “Jeremiades”, oltre all’irrinunciabile “Aren Lezen” (specie pt. II e pt. IV), capitolo della priapica serie Qua raccolta in un cofanetto di 37 CD nel 2009 - opera consigliata a chi è in cerca di una full immersion mertensiana di primo livello.
Dell’intervista ho lasciato le pause, le brevi interruzioni, e ruptures. Più notizie sul suo sito www.wimmertens.be.
Trivia
LM: In una vecchissima intervista dicevi che ti consideravi un esecutore di medio livello e che per questo motivo avevi deciso di usare (italiani, ma non eccelsi) i piani della Crumar e tra questi il penultimo della loro gamma per qualità.
WM: Penso che l’histoire con il piano Crumar, del quale ho ancora due esemplari dello stesso modello, fu interessante perché, successiva- mente, puoi dire che fu qualcosa che aiutò ad allontanarsi dai clichés della musica per piano, per così dire. Era uno strumento dalla tessitura molto limitata in termini di ottave, quindi la manipolabilità dello stru- mento era assai ridotta. Così, probabil- mente, mi ha aiutato ad andare ad una sorta di quintessenza o a distaccarsi dai clichés della musica per pianoforte. E allo stesso tempo sei forzato ad arrivare a qualcosa che dopo, molto molto dopo, capisci che proba- bilmente fu quel tipo d’idea esclusiva che era lì, era lì e tu non l’hai inventata, era lì come un a priori. Attorno a quell’elemento potrei poi andare avanti, ed inventare, inventare probabilmente un nuovo, un certo nuovo modo di comporre. Come tratti qualcosa che ti è dato... ?
Recentemente ho chiamato questo “Give without giveness”. Qualcosa è dato, cosa sia esattamente non ne hai idea, non puoi verbaliz- zarlo, l’approccio della lingua non basta per definirlo e anche la tua testa ti dice che non senti, innanzitutto, di doverlo definire ver- balmente, o di... non vuoi conoscere che cosa sia, in un modo razionale, il modo ra- zionale convenzionale, con l’aiuto del linguaggio convenzionale. E’ give without giveness.
Questo ovviamente ha a che fare con una assai lunga tradizione, che va avanti per generazioni: mio padre era un musicista, suo padre era un musicista... così c’è una specie di “per-generazioni”, una certa informazione che potresti anche dire che ha... c’è un qualche elemento di segre- tezza, un elemento segreto collegato a ciò. E quell’elemento ti dà sufficienti informazioni conosciute per iniziare o continuare.
LM: La tua mano sinistra mi sembra ami i fortissimo. A volte sembra che tu riesca a modulare la nota - non credo un piano acustico possa assomigliare di più a Jimi Hendrix del tuo.
WM: Non è tanto una questione di volume, ma è assolutamente vero che c’è qualcosa di molto speciale nella mia mano sinistra. E il primo musicista che diede attenzione a questo fu Michael Nyman, perché per coincidenza nei primi ‘80 abbiamo fatto uno o due concerti a Londra, io l’avevo invitato da ar- tista ospite, come secondo piano, e successi- vamente disse “state attenti a quella mano sinistra di Wim Mertens” - perché, in un unico sè, la mano sinistra possiede questa certa funzione ritmica ma anche funzioni ar- moniche, anche funzioni melodiche. Ora: io ero mancino da bambino e provarono, mi obbligarono - erano i ‘60 e i ‘50... - a cambiare e così dovetti stare a scuola per scrivere con la mano destra. Non so se venga da quell’episodio. Per varie cose sono ancora mancino, non per scrivere ma...
Così è interessante che anche oggi quando compongo e anche durante un concerto, sì: c’è la mia mano sinistra. Non solo cose complesse (in termini di 2 e 3, due battute e due battute e tre eccetera). Così... c’è assolutamente una certa attività attiva nella mano sinistra, che è in ogni momento come un fattore di interruzione, di discontinuità. So di avere quella mano sinistra per... E’ anche un modo... quando lavori su qualcosa e hai la sensazione che ti ci stai un po’ rinchiudendoti dentro, con la mano sinistra - e con la voce, ma quella è un’altra storia... - con la mano sinistra c’è il modo per fuggire.
LM: Mi ha sorpreso sentirti parlare bene di Lady Gaga. Per me rappresenta una lubrificata macchina propagandistica in movimento. Gaga, inoltre, alza di una paio di tacche le Madonne o i Bowie, poichè spinge il pacchetto-prodotto ad altezze inusitate. Che cosa ti piace di Gaga?
WM: Le cose di cui m’interesso sono forse non tanto l’intero sistema commerciale attorno ad esso, ma semplicemente il fatto che ogni 2, 3 o 4 anni, o anche più rapidamente, càpita anche nel jazz, vediamo il fenomeno di nuove voci emergenti. Ma come possiamo approcciare questo fenomeno delle nuove voci?
Mi sono sentito [musicista] alla metà degli anni ‘60 - ho iniziato a cantare nell’82, ho iniziato a comporre nel 1980, per così dire, [nell’] ‘82. Ho fatto il mio primo concerto solo nell’84 in Giappone. Quello che è essenziale per questa “voce”... ho sempre separato strumenti e approcci strumentali da transizione tra gruppi strumentali, come uno stratagemma compositivo, come metrica. La percussione ha una metrica. Ma la voce è una comunica- zione univoca, puoi andare dalla voce allo strumento ma non puoi andare nel senso opposto. E’ una comunicazione a senso unico perché è già là, è un apriori. E’ anche data in un modo completo.
Non puoi discutere, in quanto tale, con l’elemento della voce, sia essa la voce di Lady Gaga, o la voce di Chet Baker, o di Neil Young o Bob Dylan, tutte queste voci, voci più o meno grandi. E noi abbiamo: trova la tua propria voce. Trovare la tua voce è una specie di espressione popolare che sta a dire che tutto quello che conta è di trovare la tua propria voce, è come, è come un aggeggio... quello per cui viviamo è di trovare la nostra pro- pria voce in un modo di... collegato ad un elemento di piacere e collegato all’elemento di autonomia, la voce non vuole comunicare in un... la voce va... la voce è come quinto elemento,... la voce va solo da 5 a 4, il 4 è le percussioni e la metrica della percussione puoi sviluppare tecniche, espedienti per an- dare agli archi, fiati, arpa, chitarra e questi sono i quattro elementi di come tu produci i suoni.
Ma, diciamo anche nel linguaggio popolare la “voce divina”, c’è una certa di- vinità in ogni voce, per così dire, e ogni ge- nerazione, e questo è molto esplicito nella musica popolare, nella musica pop come in ogni tipo di musica, è interessante vedere come ci sono, in modo casuale, informazioni o elementi del caso che fanno in modo che un certo gruppo o cantante presenti sé stesso o sé stessa ogni volta. E quell’aspetto do- vremmo cercare di osservare, per poterlo comprendere.
LM: Raf Simons viene dal tuo stesso paesino e tu sei fiammingo, come la scuola di fa- shion designers che ha spopolato in tutto il mondo: Ann Demeulemeester, Dries Van Noten, Dirk van Bikkembergs, Sofie D’Hoore. Mai pensato a delle liaisons con la moda? C’è qualche codice colore nei tuoi concerti?
WM: All’inizio, c’è stato un tempo in cui eravamo interessati in questi codici d’abbigliamento ma non li ho mai sviluppati sino a farli di- ventare un elemento distintivo. Non è un fattore esplicito, per me.
LM: Volevo chiederti due cose sui tuoi pezzi. Una è sui pezzi scritti o arrangiati per percussioni...
WM: Ho appena accennato a questo, prima. Allora: quando diciamo che la voce ha una co- municazione uni-direzionale, la voce è qualcosa di talmente astratto che se noi pen- siamo che la voce si possa annotare sotto forma di note, forse questa è un’arroganza occidentale. Perché la voce ha tutte le flessi- bilità, non vuole essere annotata in un modo assai preciso. Ma per la voce, per fare qual- cosa con essa, o per fare qualcosa con la voce e con altri strumenti, hai bisogno di sviluppare, di inventare anche un modo di renderla concreta e quel processo di fare di- ventare concreta la voce avviene attraverso, parlando molto in generale, gli strumenti a percussione. Il piano può anche giocare il ruolo di strumenti a percussione, il piano e anche la chitarra. Così, originalmente, ero un suonatore di chitarra, ho iniziato la mia prima scuola musicale ad otto anni, - la chi- tarra acustica, da 8 a 18 anni, in Accademia: il mio primo strumento era la chitarra, il se- condo il piano. Così immediatamente, visto che... ero un cantante che aveva necessità di toccare, di rendere la voce concreta, e questo si unisce molto facilmente con la chitarra nella quale hai questo elemento di percus- sione con la mano destra, che è spesso quello che con cui i chitarristi si fanno rico- noscere, con il suo specifico approccio, suo specifico stile. Volevo enfatizzare maggior- mente le percussioni ed ho pure pubblicato uno spartito di 50 pagine di quell’intera produzione, all’interno di Aare leezen.
Ah! Aren Lezen (particolarmente la parte IV per arpa: Pious intentions, Whole bun- dles, Periods of fasting, Most secure bastion, At arm’s length ecc.) è secondo me tra le cose più belle che tu abbia composto. E che troneggiante rispetto per il silenzio... I differenti pezzi di Aren Lezen sono compo- sti per arpe multiple e puoi sentire, in certi pezzi, fino a 7 arpe sovrapposte. L’elemento di silenzio è il risultato naturale del pro- cesso compositivo. Trova il suo posto nella sovra-imposizione del tessuto di arpe multi- ple. Ma il progetto Aare lezen era ancora più ambizioso, nel senso che l’area del soggetto era di dare veramente una dimostrazione auditiva di quali sono le relazioni tra gli
strumenti a percussione, i fiati, gli archi e arpa e chitarra. I pezzi di Aare lezen sono l’ultima tappa nel progetto lungo 37 CD in- titolato Qua, composto e registrato tra il 1980 e il 2001. Una specie di progetto com- positivo da 3 x 7 anni. Così avevo... 13 pezzi [che] sono tradotti in questi quattro gruppi, e quello che era l’elemento vocale originario è suonato dall’euphonium. L’euphonium è uno strumento che è molto... è un po’ vicino alla voce. Non veramente vicino, ma... Il sax soprano e l’euphonium... il modo in cui uso questi strumenti è spesso una trascrizione di quanto ho cantato [improvvisato] in pas- sato... [Sulla visione alchemica de] gli stru- menti, dove la pesantezza dell’arpa è associata con la terra. L’arpa, insomma, è come la terra: è pesante un’arpa, ti tira giù verso terra. Violini e sezioni d’archi rappre- sentano l’acqua: il loro arco sfrega sulla su- perficie della corda come l’acqua scorre. L’aria sono gli strumenti a fiato, in inglese sono i winds, i venti. E le percussioni (o stru- menti percussivi come la chitarra e il piano) sono il fuoco - quello generato dalle scintille che si hanno quando si percuotono due corpi. E poi ci sarebbe la voce, come quinta dimensione - l’etere.
LM: L’altra domanda era su That M, una inusuale sorta di Mertens-tropicalia... Cosa c’è dietro?
WM: “That M” è un pezzo che data dalle mie prime registrazioni, con Peter Gordon, dal disco “At Home, Not At Home”. In questo pezzo ho usato una combinazione di percussioni acustiche e di percussioni elettroniche pre-programmate. E - ovviamente - al tempo non ero conscio, a conoscenza del- l’importanza della percussione, in generale, ma l’abbiamo registrato con l’aiuto di Peter, che era venuto dalla scena di NY e che era... abbiamo imparato la registrazione multipista, in sequenze separate, ciò voleva dire che un percussionista poteva suonare, poteva completare 7, 8 takes in 2, 3, 4, 5 strumenti differenti e ciò fu importante, la musica che avrei composto, che stavo producendo all’epoca, avrebbe utilizzato i più nuovi elementi in termini di tecnica di registrazione, di uno studio di registrazione per musica commerciale, intendo dire.
Quello che voglio dire è che quando ho iniziato, molti compositori della mia generazione erano lì che aspettavano che qualche direttore di un’orchestra sinfonica gli commissionasse un lavoro. Quindi dipendevano dalla vecchia struttura delle orchestre sinfoniche, degli ensembles, la hiérarchie. E immediatamente, lavorando in un modo totalmente differente, sentimmo di esserci sincronizzati alle nuove tecnologie dei primi ‘80 e, in secondo luogo, non ci saremmo mai trovati asserviti, dipendenti dalle vecchie strutture schiavistiche del mondo del musica classica.
Praxis and performance
LM: “Vedi” la tua musica prima di comporla?
WM: Come il DVD “What you see is what you hear” ha indicato, ho una preferenza per l’aspetto del sentire rispetto al vedere. Meno interessato ad un approccio concettuale, mai system composer.
LM: Hai detto di combinare praxis e esecuzione insieme alla teoria. Essere un musicologo quindi con ancor maggiore coscienza cri- tica rispetto al materiale sonoro, non può reprimere la creatività?
WM: Practical performance e performance praxis rimangono centrali nel mio approccio musicale. Muovendosi un po’ più lontani dal- l’idea che lo spartito è il prodotto finale. At- traverso l’interpretazione e la pratica musicale, avvicinandosi ad elementi di caso e sorpresa. La musica ogni volta va suonata nuovamente. Con nozioni di “Moins de metre, assez de rhythme” e “Not yet, no longer” cercando per più plasticità ed un approccio meno rigido.
LM: Poiché tu scrivi essenzialmente musica orizzontale, hai detto, le tue composizioni possono essere arrangiate per qualsiasi strumento. Eppure a me sembra che l’arrangiamento rivesta un significato quasi metafisico, che trascende estetica o necessità. Qual’è la chiave di lettura, qui? L’aspetto orizzontale rimpiazza l’attenzione sul verticale, sul pensiero gerarchico. La linea melodica, vocale porta in sè un ele- mento orizzontale. Il lavoro di arrangia- mento arriva in un secondo momento, in una fase successiva ed è secondario. L’aspetto orizzontale crea una specie di “open continuum” che si conclude senza chiusura. Hai anche detto che se un compositore ha due idee fondamentali, una è di troppo. Quindi, salto alla conclusione: c’è uno sviluppo nel tuo stile?
WM: Non mi sono mai molto interessato all’idea di sviluppo, nel senso che normalmente è dato a questo concetto. Credo che questa nozione abbia a che fare con una qualche nozione occidentale di sviluppo. L’idea che qualcosa deve cambiare per poter progredire. Sono interessato, piuttosto, alle piccole differenze. Questa continuità è anche il motivo per cui puoi notare nelle mie composi- zione uno schema di composizioni musicali, di cicli che possono coprire un lungo lasso di tempo. Come in Qua, o nella serie di regi- strazioni sotto il titolo “Years without History”, dove osservi questo movimento all’interno di vecchie mie composizioni.
LM: I tuoi titoli vanno dall’onomatopea a immagini possenti, dal paradosso al calambour e sono in tantissime lingue, anche inventate. Si arriva al disorientante caso di pezzi quasi identici con titoli assoluta- mente differenti. Alla fine mi son fatto una mia teoria: non ami scrivere della tua musica, e quindi per spiegarla lascia che la musica ci parli, INCLUSI I TITOLI. Potrei probabilmente scrivere una bella poesia usando i tuoi titoli...
WM: Hai ragione. Mettendo insieme i 37 CD del ciclo QUA, in una doppia pagina del libretto abbiamo assemblato in ordine alfabetico i titoli di quelli che credo siano 365 pezzi che compongono la serie e vedendoli tutti insieme ho l’impressione che qualcuno potrebbe in maniera creativa scrivere ma- gari “il più bel libro mai scritto” semplice- mente ri-assemblandoli. In effetti, sento di aver bisogno in qualche modo di parlare della mia musica e, visto che le parole non sono il miglior mezzo per descrivere la mu- sica, trovo che i titoli aiutino a convogliare la mia visione. Sono titoli che derivano da quello che leggo, filosofia, fisica, o lettera- tura etc. In effetti, il comporre potrei consi- derarlo un’attività marginale, poichè leggere e studiare occupano la maggior parte del mio tempo. E mettere insieme i ti- toli delle mie composizioni permette certa- mente di fornire un significato più completo alle mie composizioni.
Certi tuoi titoli mi sembrano simili a quell’idea che Kubrick utilizzò in The Shining: creare un interno fisicamente impossibile dell’Overlook Hotel al fine di disorientare lo spettatore. In Wim Mertens, così, leggo magari il titolo “The scene” e lì ti ascolto zufolare una melodia accompagnato dalla chitarra e quella melodia la risento cantata alla fine della (splendida) “The Land Be- yond The Sunset” - direi in un diverso contesto armonico e accompagnato del piano. Cos’è il titolo per te?
WM: I titoli rendono la musica astratta più concreta. Essi spesso forniscono suggerimenti ad un programma più generale e a punti d’interesse. Danno una mano a guardare dall’alto un catalogo. E’ ovvio che fram- menti musicali ri-occorrano nei differenti ti- toli, presentati in un contesto differente. E’ come un’attitudine verso allontanarsi da elementi troppo determinati.
LM: Nel 1982 intervistasti John Cage registrandolo in uno dei suoi pochi momenti in cui si trasformò in un bacchettone. Per sintetizzare all’estremo: ecco un compositore che ha architettato il più crudele colpo basso ad un esecutore, chiedendogli (con 4’33”) di sedersi sul seggiolino, davanti al pianoforte, e guardare il passare il tempo senza assolutamente far niente, che se la prende con Glenn Branca leggendo in lui “un leader che insiste che gli altri siano d’accordo con lui”. Quando lo hai confrontato, facendogli notare la contraddizione nella sua affermazione che “un non obiettivo non è un obiettivo” Cage scappa nuovamente via dal discorso, utilizzando argomenti retorici, sofistici. Può un leader non essere tale?
WM: Credo che la risposta di Cage celasse qualche cosa di più profondo che semplice retorica. Il concetto iper-democratico di Cage non sembra aver sempre lavorato, nella composizione musicale. Inoltre Cage non era abituato all’amplificazione della musica. E pensare di comporre in una maniera vocale significa molto spesso un’associazione con una singola persona - io non posso cantare al tuo posto. E’ infine possibile distinguere tra processi orientati a obiettivi razionali e approcci orientati all’obiettivo che rispettano una certa materialità derivante dalla materialità musicale stessa.
Musicologia, minimalismo
Il tuo libro sulla “Musica minimale americana” è stato definito “ampio e dettagliato, analitico e polemico” ma anche “testual- mente denso, auto-indulgente ed autocra- tico”. Difendi quel testo? A me sembra invecchiato bene... E’ invecchiato?
No. Chiaramente a quel tempo - ho scritto il libro alla fine degli anni ‘70, e in quel mo- mento si sapeva assai poco di questo ultimo -ismo. Il libro, in fiammingo, è stato tradotto per primo in Giapponese credo nel 1983. Ma... Il fatto che, già allora noi si... non vi- viamo in un ambiente musicale nel quale è presente un accordo di stile, non esiste uno stile dominante nella musica... dopotutto, la musica seriale era ancora lo stile predomi- nante negli anni ‘50 e ‘60... così, qualcuno interessato alla musica, allo scopo di trovare il tuo posto, un senso di posto... io mi sono guardato attorno dicendomi, qual’è la situa- zione della musica oggi, così per dire. E questa musica americana era storicamente assai importante, era davvero un’ottimo contrappeso alla musica dell’Europa cen- trale. Così... Ovviamente la mia musica si ferma o discute di lavori non successivi al ‘79, a Satyagraha di Glass, che vidi in prima mondiale a Rotterdam. Ed introdurre queste idee su Lyotard e roba varia era, all’epoca... era qualcosa di nuovo perché l’analisi musi- cale è assai basata sulla musica in sè e per potere vedere le cose in un modo chiaro devi starne al di fuori e guardare in modo diverso. E scrivere e pubblicare il libro, anche, fu per me davvero la fine come gior- nalista o critico musicale perché nello stesso periodo stavo già iniziando la mia propria musica e anche volevo separare, ero... avevo un certo disgusto rispetto a scrivere di mu-
sica e ciò fu anche uno dei motivi per cui non ho mai scritto sulla mia musica. Perché se diciamo, ok, se ammettiamo che la mu- sica come fenomeno esiste penso che do- vremmo fare un passo più avanti e dire che il linguaggio verbale come tale non può ag- giungere qualcosa di nuovo alla musica in sè. Ma... molte volte, anche in Italia negli ‘80 e ‘90, ho detto di non essere interessato nella musica in sè, sono solo interessato nella mu- sica in quanto espressione di un’epoca, di un certo periodo nel tempo, della società, di gente, sociologia, et cetera. E in quel senso è molto interessante discutere di musica. Ma è meno interessante discutere di musica per- ché la musica non rappresenta qualcosa in un modo verbale o visuale. Rappresenta qualcosa nell’esclusività dell’elemento mu- sicale in sè, e quello è un altro programma, attenzione di programma nel mio proprio modo di lavorare, per così dire. Commentando Double Sextet/2x5 di Steve Reich non ho potuto esimermi dal notare sin dalla copertina (con i colori della ban- diera americana e numeri, i due pilastri del sistema coloniale americano: patriottismo e Wall Street) come il disco trasudi una certa americanità. Poi ho letto del “mona- dismo iterativo” della Stoianova, da te citato nel tuo libro , che parla di musica minimale e psicologia sonora. Mi ha inte- ressato il punto dove sottolinei come la musica ripetitiva abbia ridotto l’ascoltatore ad un ruolo passivo e la musica determini il soggetto. Lì citasti Reich: “uno può controllare tutto solo quando è predisposto ad accettare tutto”. Ora la frase, secondo me e
nel contesto attuale, può essere ancora letta come una sublime massima zen o sufi, ma ci può anche star bene come affer- mazione totalitaria. Le idee retrostanti il minimalismo americano erano forse totali- tarie ab initio? O è il minimalismo ad esser stato cambiato dalla storia?
Senza dubbio c’è quell’elemento relato alla società capitalistica, che chiaramente... e c’è anche la seconda questione di un qualcosa che potremmo chiamare... religione con fattezze autoritarie. Quella nozione critica o ri- flesso critico [di cui parliamo] non è presente nella musica americana. Quasi sembra come se la loro musica fosse piutto- sto una conferma del sistema e più noi prendiamo le distanze [da loro] tanto più questa differenza apparirà chiara. E’ un modo, il loro, pragmatico, concettuale di comporre. Ed è un modo che ha meno attenzione per la deviazione in termini di operazioni ca- suali, contingenze, ed anche d’ascoltare at- tentamente o rispettare o includere l’elemento della voce, nel senso della voce esattamente come elemento di non accordo, di resistance...
o di Rupture ... di rottura e di resistenza... così quello che veramente conta è il grado di resistenza incluso in alcuni lavori musicali, o in certa pittura o letteratura. Possiamo concludere dicendo che questo non era certamente il punto di attenzione nella musica dei ‘60 e ‘70. Ma anche possiamo capire perché non era lì. Perché il nemico, il vero nemico in quel periodo era l’avanguardia del centro-Europa... così [i minimalisti] avevano... il loro programma era molto più preoccupato a ristorare quelli che chiamiamo elementi più convenzionali del linguaggio musicale, come armonia, routines ritmiche. Questo era una cosa cruciale per opporre un contro- equilibrio a quanto era successo nel periodo post-seriale, negli anni ‘50 e ‘60 in Europa. E in terzo luogo, forse possiamo dire che era l’ultimo -ismo anche se non c’era alcun con- senso nello stile... questi compositori crea- rono l’ultimo -ismo ed erano... come non-gruppo erano purtuttavia ancora un gruppo. Molto fortemente collegati a quello che tu hai descritto, una conferma di ele- menti vitali dello stile [americano]. Avevo già indicato questo aspetto nel libro, nell’80, credo.
Parliamo del tuo vocalese esperanto: è un urlo di libertà, in una nazione dove ogni paese parla un dialetto diverso? O una ri- sposta politically correct alle divisioni Fiandre/Vallonia? O rigurgiti di una co- scienza culturale (“Questi frammenti ho arginato contro le mie rovine”, nella Waste Land) o il non linguaggio è l’unica possi- bilità, nell’era della morte della comunica- zione? Improvvisazione?
Il linguaggio non è improvvisato, nel senso che quando faccio un concerto oggi, e do- mani faccio lo stesso concerto, le parole che canto non sono le stesse ma la lingua ri- mane, come un intero: è la stessa e tu puoi riconoscerla. L’ho sviluppata poco a poco, dal ‘82, ‘84, ‘86. Più tardi potevo scriverla foneticamente per altri cantanti, che pote- vano cantare in un modo fonetico. E potevo anche includere messaggi in linguaggio convenzionale, persino, in certi testi. Ad esempio in “Maximising” cantiamo parole tradizionali. Ho potuto persino comunicare durante il concerto con il mio sound engineer se mi trovavo con un problema nel sistema. Ci sono registrazioni in Italia dove dico a Stephan, il mio engineer, di fare alcune cor- rezioni.
Così, perché cantare? Posso facilmente can- tare frammenti in olandese, o inglese o fran- cese. Posso... a volte quando vecchi amici sono nella sala posso cantare i loro interi nomi; così è veramente un gioco, c’est un jeu - ma è... penso sia certamente legato alla si- tuazione belga dove non esiste una singola lingua dominante, dove c’è questo elemento di confini, è una piccola nazione. Così devo avere sentito in un modo o in un altro che se volevo andare fuori dal Belgio avrei dovuto farlo in un linguaggio differente.
Come sai i miei primi concerti sono stati in Italia, a Bologna e Siracusa: due concerti. ‘81 o ‘82 in un festival all’aria aperta a Bologna: ero lì con il piano Crumar elettrico e Dirk
Descheermaker al sax soprano e clarinetto. E abbiamo guidato tutta la notte con il piano Crumar sul tetto di una piccola Fiat, sino a Siracusa.
Una lunga strada!
È stata lunga, molto lunga. Sì.
E il piano Crumar ha retto, suppongo...
Avevamo costruito delle speciali casse da trasporto aereo per gli strumenti, ricordo... Si. E’ stato un viaggio spettacolare.
Ho ascoltato (nel DVD del concerto di An- versa del 2005) il coro cantare Watch in in- glese e per me certa magia delle parti vocali era finita - fintanto che il tuo voca- lese non veniva ripreso. E’ come se quello stato di trance che i tuoi cantati generano fosse stato lacerato - per via di quella lin- gua riconoscibile... Perché l’inglese?
Beh, era una delle.. forse... uno dei pochi pezzi in cui tu trovi... volevo dimostrare per un’ultima volta l’uso di due linguaggi. Nella parte centrale c’è questo testo inglese, semplice testo molto naif, e... era... probabil- mente, non ricordo molto bene, ma.. comun- que la via che abbiamo scelto in seguito era di continuare nelle liriche e testi non accet- tati, convenzionali, perché il loro posto - credo - non è veramente nella musica. Per- ché molto spesso, e quasi sempre nella sto- ria, quando i compositori iniziano usare testi convenzionali questi sono molto spesso legati alla chiesa e... a elementi di potere. In quel caso il linguaggio è usato come un ele- mento di - sì- d’espressione di una certa tra- dizione culturale, e come molte tradizioni culturali il suo principale scopo è di soste- nere e di confermare e ri-confermare il po- tere... Molto, molto fortemente relato a processi di potere e dominazione ed espansione culturale, eccetera.
Un elemento nella musica minimale, musica minimale originale - e questo mi ha dato parecchio fastidio - era anche che c’era chi usava tecniche per- cussionistiche dall’Africa e usava tecniche compositive dall’Asia - tutto ciò esattamente dalla loro confortevole posizione, con una possente cultura americana. Usare questi elementi come su tu potessi usarli sans pardon, senza conseguenze.... E’ questo il motivo per cui io ero... questa nozione di “world music” non è mai stata la mia favourite thing. Ché anche là la gente ha l’illusione che tu possa usare questi elementi, che non hanno alcuna relazione con il luogo da dove tu provieni, la tua propria cultura...
Frontiers
LM: Hai ricordato ad un intervistatore come, una volta, la musica fosse strettamente le- gata al luogo da cui proviene. Oggi non
più. Quanto il Belgio forma la tua musica? Quanto belga è la tua musica?
WM: C’è chi va oltre e afferma che la scuola polifonica fiamminga, franco-fiamminga, fosse tutta una questione di luoghi...
Già nel 1990... un senso di luogo... questo elemento del luogo è molto più importante di quanto noi si pensi. Così credo che sì, la mia musica ha quantomeno tutto i possibili fini che sono qui e che sono legati al belga, o ai dif- ferenti belgi in Belgio - tutto è lì, quanto meno. Ovviamente l’esperienza della musica può andare aldilà del posto in sè, ed è più una questione di se tu riesci a connettere o meno, se persone in altri paesi pos- sono connettersi a questa esperienza. Così io non lavoro coscientemente con queste nozioni ed è perché non riesco assolutamente a prendere distanza - perché o uno è ita- liano, o uno è belga e non puoi... non c’è sufficiente distanza per poter dire qualcosa di veramente serio o in dettaglio su ciò, penso. Quello dovrebbe essere... forse è meglio che resti implicito. Ma quantomeno ri- conosco che per me quell’elemento di posto è molto importante ed è uno dei punti ini- ziali, è qualcosa che non puoi negare, da cui non puoi sfuggire. Anche se ti muovi hai questo bagage, questi elementi con te e sono onnipresenti. E’ una cosa buona, una cosa positiva.
LM: Non ci potrebbe mai essere una American Wim Mertens music.
WM: Non farebbe alcun senso. No.
LM: Cos’è successo al tuo progetto sulle frontiere belghe? E perché sei cosi affascinato dalle frontiere e dal valicarle, da costruire e - nel contempo - costruire a fianco una “strategia della rottura”?
WM: E’ vero che nella metà degli ‘80 avevo avuto l’idea di scrivere BBS, Belgium Borders Suite, che non ho mai composto. BBS, Belgium Borders Suite, eh? Forse un giorno potrei comporla, ma voglio che mi commissionino per farla... Sì, l’elemento dei confini, di andare oltre confini era [molto presente] negli ‘80... ed anche enfatizzare l’unicità di parlare almeno tre lingue in un paese così piccolo come il Belgio è vera- mente unico e potrebbe ispirare a lavorarci sopra...
LM: Maximising the Audience è stata usata da Jan Fabre in “De macht der theaterlijke dwaasheden”. Era volontariamente, la tua musica, l’antitesi del generoso lavoro di Fabre, cosparso di coreografati peni e pubi, piatti rotti, chiappe sculacciate e rane simbolicamente schiacciate?
WM: La prima di quel pezzo teatrale è stata eseguita l’11 giugno 1984 a Venezia. No... era la prima volta che mi veniva commissionato di scrivere qualcosa. Stavo scrivendo musica sin da prima che il lavoro mi venisse commissionato. Le due cose si sono sviluppate simultaneamente. Non è che il pezzo tetrale fosse già pronto, o che noi potessimo immaginare... così fu una collaborazione molto loose, il che fu assai positivo. Ovviamente il linguaggio di Fabre ha ogni tipo di differente enfasi rispetto alla mia musica.
Ma alcuni dei pezzi andavano molto bene con le scene. Perché l’ho rivisto recentemente... è stato prodotto nuovamente - l’anno scorso hanno fatto una serie di rappresentazioni. Jan mi ha invitato ad Anversa, al deSingel. Così l’ho rivista. Anche la musica è stata ri-pubblicata... in ef- fetti è stata la mia unica collaborazione tea- trale, forse nella danza ho fatto qualche altra cosa... Ma a quel tempo mi sentivo... c’era una certa sincronizzazione tra Jan Fabre e me, c’era... Era un’esperienza interessante.
Economia politica
LM: Le poche note che distinguono una brand telecom famosa come Proximus sono tue. Ciò ti accomuna a gente come Brian Eno, che compose le note per Windows. E’ questo quello che la musica può diventare nel XXI secolo?
WM: Penso che uno dei nuovi elementi degli ‘80 e ‘90 fu che musica esistente venisse usata nella pubblicità. Perché io non ho mai composto per commercials, anche se molti miei pezzi sono stati usati per pubblicità, alla TV etc. Ma non viviamo più in un mondo in cui componi una messa e ti viene suonata due settimane dopo, etc.
Così la musica si cerca altre parti, altre applicazioni. Possono essere teatro, può essere il cinema, la pubblicità, questa è piuttosto una discussione di publi- shing. Ti permette di far conoscere la tua musica ad una audience più vasta, in di- versi paesi. Ed è anche interessante osser- vare alcuni titoli che trovano un’altra strada, e che tornano in differenti paesi sotto quel formato, per così dire.
LM: Kevin Volans disse che il suo “White man sleeps” era troppo semplicistico e cheesy, anche se è uno splendido pezzo di musica. Hai mai pensato che troppa melodia stroppi?
WM: Prima di tutto non registrerei mai qualcosa che penso non sia quello che mi aspetto da esso. Ma da molto tempo, ed ancora oggi, la “complessità della semplicità” è per me molto un concetto molto più interessante.
La complessità della semplicità è un obiettivo assoluto. Qualcosa interessante ha sempre - credo - un elemento di... ha un elemento semplice in esso. E, anche: la complessità della sua semplicità è quello che m’interessa.
LM: Filosofo a Harvard, Michael Sandel ha ricordato come oggi “praticamente tutto si può comprare e vendere“. D’altra parte tutto è propaganda - o quantomeno viene usato dalla propaganda, se e quando vien fatto galleggiare sulla superficie mediatica. Eppure, ancora, la musica è politica. Quale ruolo è lasciato al musicista o qual’è il ruolo che il musicista può giocare nella società?
WM: Innanzitutto, non è interessante osservare la musica “in quanto tale”, come ho detto non sono mai stato interessato alla musica “in quanto tale”. Dall’altra parte, se possiamo includere una specie di apertura, una aper- tura radicale... non totalitaria, ma... una radicale apertura alla materialità della musica, là abbiamo la possibilità di ripensare alle nozioni di vittima e vincente.
Non abbiamo però credibilità se ci occupiamo di questi temi, di questi temi politici, senza cambiare il corso del linguaggio, del linguaggio musicale in sé. Così se mi chiedessi di musica commemorativa della 1a guerra mondiale, [in] tutto quanto è stato fatto... tu senti che il linguaggio musicale usato per queste commemorazioni non è cambiato, non è cambiato per nulla.
Così l’impatto a lungo termine della musica è che tu trovi, arrivi a definire una sorta di momento di sincroniz- zazione con l’epoca in cui tu sei attivo come musicista, come compositore, come artefice di musica, e che ri-definendo gli elementi di vittima, vincenti, ri-definendo gli elementi di che tipo di soggettività, soggettività uma- nistica stiamo cercando... siamo forse noi alla fine della nozione classica di specie umana? E tentiamo di definire questo cambiando attraverso un modo musicale, tirando fuori [questa definizione] da un materiale musicale, così nel tendere verso ciò, creare una nuova attenzione per la materialità della musica?
Questo è l’unico modo per trattare queste domande molto interessanti che mi hai posto rispetto alla relazione tra musica e politica. Perché allo stesso tempo la musica è molto conservatrice, si muove con grande difficoltà verso un altro paradigma, verso usare nuove tecniche nello sviluppare la musica. Ma allo stesso tempo credo fortemente dal primo giorno che la musica abbia questa capacità, abbia la possibilità di creare discontinuità, interruzioni, rotture etc. Ed è molto importante rimanere all’erta rispetto [a questa capacità], e se il principale elemento deve essere come posso integrare nel mio comporre gli elementi di caso e contingenza, come posso scappare da un pensare per gerarchie, un pensare in verticale? Chi parla? [D’altra parte] non devo ascoltare qualcuno che parla per coincidenza. Io devo... il mio obiettivo è di cercare la mia propria voce e tradurre questa nella musica che voglio fare.
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