Luca D. Majer
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Oltre il death metal e il gangsta rap.

League of Legends

 
 
 
 

 

Inferior, no use to mankind/strapped down screaming out to die
(Inferiore, inutile per l’umanità/legato, urlando da morire)
Angel of Death, Slayer
 
 
Nei NOVANTA il filosofo Ivan Illich, prendendo a prestito un termine del linguista Uwe Pörksen (da “Plastic Words: The Language of an International Dictatorship”, 1988), ci metteva in guardia sulla parola “vita” intesa come una “parola ameba,” una “parola di plastica:” un insieme di sillabe che caratterizza almeno 25 cose diverse.
 
L’estremistica difesa della Vita “ad ogni costo” (tipica, per dire, di certa medicina moderna) è nata, per Illich, dal nostro trasformare la percezione della morte da ineluttabile compagna di vita ad un'angosciante persona altra rispetto a noi, da combattere con ogni mezzo una specie come con il Leatherface di Tobe Hooper.
 
Così la Morte è diventata una parola di plastica. L'abbiamo vista galleggiare sulla bio-politica della pandemia, dov'è diventata fattore economico e una palestra per la psicologia di massa. Secoli fa era  una questione filosofica, nel lockdown la morte - i giornali - l'hanno proposta come un mostro che ci stava facendo a pezzi. Persino per le tesi 'cospirazioniste' la Morte continua ad essere un personaggio centrale, dietro i tanti decessi istantanei osservati successivi alle ondate vaccinali.
 
Non mi stupisco quindi a leggere che nel 2023 “l’insicurezza colpisce il 66,5% degli italiani” mentre più di metà di loro “crede che dovrà abbassare il proprio tenore di vita.” Cioè: l’italiano medio è depresso. Ci sarà del Sigmund Freud in tutto questo.
 
Sarà pure colpa della mano invisibile del “Mercato” e dell’economia. Ma forse è che il problema di fondo sta proprio nel fatto che stiamo attaccando briga con quel bullo del “linguaggio,” che Nietzsche definiva “un potere a sé stante, che afferra e spintona la gente con braccia fantasma verso luoghi in cui essa neppure vuole andare.”
 
La musica è un linguaggio ed ha un soft-power simile all’acqua: s’infiltra ovunque, aiutandoci giornalmente a ingranare nei nostri destini (in media, abbiamo visto, depressi.) E trasmette, in quanto tale, un messaggio ideologico più o meno evidente.
 
Ovvio quindi trovarla all’opera nell’abbigliare quel tema ameba che è la morte. Come quando, addomesticandoci a questi temi, la musica ammanta copioni trasudanti nevrosi, tossica dipendenza o immagini di morti autoinflitte, come succedeva spesso nei video clip di pop music e trap dei Tremendi Anni Dieci.
 
Oppure, sempre più spesso su Telegram o Twitter, la morte umana (altrui) ormai spiattellata bestialmente quasi fosse pinzimonio da apericena: nuda e cruda. E con un’insistenza che inevitabilmente ci porta a de-sensibilizzarci quasi si fosse in guerra, quando cadono i pudori e la morte è lì e conta solo di farcela.
 
Va oltre la curiosità, quindi, il chiedersi qual è la musica in cui la morte, per così dire, diventa elemento esogeno dell’assemblage - uno strumento col quale evocare, esorcizzare, maneggiare, commentare, magari persino provocare (a terzi) questa famosa Morte.
 
Il tema è grande, lo spazio poco, ma consente di fornire qualche spunto. Soprattutto, effettuare un piccolo viaggio nei riflessi automatici nei nostri gusti e delle nostre psicologie, arrivando al gap parallattico di una melodia per bambini (occidentali) che diventa tortura per adulti (orientali.) È solo una questione ‘culturale’ o la musica ha davvero un potere straordinario?
 
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... la “bella” musica dipende tanto dalla musica quanto da noi (e dalle circostanze.) L’esempio per antonomasia è la canzone I Love You, Barney dove Barney è un orsacchiotto cartoon, e la musichetta una tiritera infantile neanche del tutto inascoltabile, ma -in quel minutino di nenia- così basata su ripetizioni più o meno evidenti da diventare un potente emetico, se ascoltata in anello. 

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Pubblicato sul numero 300 di BlowUp magazine, maggio 2023