Luca D. Majer
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Articolo sulla nascita delle "genre labels" - le etichette affibbiate ai differenti stili musicali.

 
 
 
 
 
Etichette e genre labeling
 
La R’n’R Hall of Fame di Cleveland, Ohio è la nota fondazione dall’originale slogan “Long Live Rock” che s’è inventata la cerimonia di “induction” con la quale, dal 1986, sancisce lo status ufficiale di veri rockers. Oramai, a perlopiù vetusti performers come (nel 2022:) Harry Belafonte (95 anni), Carly Simon (79) e Dolly Parton (76.)
 
Insomma è alta propaganda auto-incaricatasi di costruire “la Storia del Rock.” Che dico? Della MUSICA. Ce lo ha permesso di notare la Parton quando, udito d’esser tra i “papabili all’induzione 2022”, in un primo tempo ha rifiutato la nomina non ritenendosi davvero “rock.” La risposta del ‘Museo’? Pardòn Pàrton! devi accettare la candidatura poiché “sin dall’inizio il rock ha profonde radici nella musica rhythm & blues e country” e la musica rock “non è definita da un solo, specifico genere ma piuttosto è un suono che muove la cultura dei giovani.” 
 
L’aneddoto m’ha interessato. Dagli archivi ‘museali’ ho estratto una bella conferenza del 2012 che ci riporta un secolo indietro, tra 1916 e 1924, agli albori del genre labeling, quell’oscura parte dell’industria musicale che è l’etichettatura dei generi musicali.
 
In essa l’eccellente David Brackett, storico musicale della Schulich School of Music (at McGill University) di Montreal, analizza in particolare lo strano miscuglio che unì blues nero e vaudeville bianco e nero tra ’16 e ’20, come esemplificato da Sophie Tucker: cantante bianca che prende lezioni da cantanti nere per cantare musica scritta da bianchi in uno stile musicale bianco concepito ad imitazione dei neri. Il tutto in concomitanza al successo della “foreign music” (dischi di musica prodotta all’estero -poi negli USA- da immigrati in dozzine di lingue, tra cui italiano, slovacco, ruteno e… napoletano.) 
 
Insomma: stavano nascendo gli “stili.” Le etichette.
 
Soprattutto si stavano definendo i nomi per la musica degli immigranti nativi, afro-americani e dei poveracci bianchi (la ‘spazzatura bianca’ o white trash.) Classi liminali sballottate dal progresso industriale in lungo e in largo del paese, in cerca di qualcosa che li rappresentasse. E confrontati ad un razzismo endemico.
 
Brackett considera che la bianca Marion Harris abituò i bianchi ad avere una donna che cantasse i blues. La chiama “l’Elvis Presley del blues classico,” e considera il suo Paradise Blues (1916) come una sorta di “gateway drug” (droga iniziatrice) verso la musica nero-americana omologa, cioè rappresentante concrete istanze proprie del cantante e del suo gruppo sociale, non più relegata agli estremi del sacro (gospel) o del profano (minstrelsy.) Un genere, insomma, in cui il pubblico si sarebbe identificato. 
 
L’etichetta “race music” (amata dalla popolazione nera che vi trovava un aroma di fiera appartenenza) si dice nascere con la pubblicazione della nera Maggie Smith del 1920 anche se la canzone venne lanciata come “colored music” e il termine “race” inizia ad essere usato solo dal 1923 e solo nel ’24 viene riconosciuto anche dal n°1 del settore. Solo nel 1949 il genere cambierà etichetta in “rhythm and blues”, ancora usata 70 anni dopo, con brevi fasi anche di musica “soul” (i Settanta) e “black music” (Ottanta.)
 
Gli altri nativi in cerca di un nome erano “i negri dei bianchi”, white trash, che amavano uno stile inizialmente etichettato come “old times’ music”, o col simpatico ma limitativo “fiddle music” o il dispregiativo “hillbilly music” [NB- hillbilly (‘campagnolo’) non è un insulto se anche tu sei un hillbilly: è come nigger tra i neri], che diventerà “Country & Western” negli anni ’40 per poi mollare metà dell’etichetta e chiamarsi dai ’50 solo “Country.” Almeno nelle classifiche.
 
Insomma, le grandi etichette nascono come i grandi vini attraverso un processo di affinamento. Che, dimostrabilmente nei casi del country e del r’n’b, con un processo reiterativo: approssimazioni progressive che tengono conto delle case discografiche come dei media specializzati, dei critici e del pubblico. Un cammino che prende anni.
 
Al quale le oligopoliste del mercato spesso vengono costrette a seguire, ma che inevitabilmente influenzano quando, una volta che il nome di uno stile si assesta per acclamazione interna al settore, si dedicano ad un’opera di filtraggio che, ad esempio, portava loro a non registrare sul campo gruppi neri che eseguivano musica bianca, così a confermare, falsandola, la validità intrinseca dell’etichetta di “race music.” 
 
Nello studiare il genre labeling l’insegnamento di maggior momento è che questo processo crea generi, etichette che sono una carta d’identità dell’ascoltatore.
 
Ancora di più con lo sviluppo di sub-stili sempre più contigui (e quindi difficilmente distinguibili,) il concetto di stile ed “etichetta” dipende sempre meno dai confini sonori, per quanto vaghi siano, e sempre più da una peculiare caratteristica attaccata all’etichetta stessa: essere qualcosa che definisce ciò che l’ascoltatore di quello stile vuole o pensa di essere. Ciò a cui si sente di appartenere.
 
Un’etichetta oggi, più ancora che certe caratteristiche sonore, polarizza un certo ethos condiviso. E la musica mainstream diventa quella che non catalizza uno specifico gruppo o ne catalizza la maggioranza. 

 

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Pubblicato su BlowUp, 2023