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Il 28 marzo scorso è uscito uno studio (principalmente) della JKU che analizza e compara testi di -solamente- 353.320 canzoni, uscite negli ultimi 40 anni, in cinque stili: rap, country, pop, R&B, e rock. Chiaramente, i ricercatori (Parada-Cabaleiro, Mayerl, Brandl, Skowron, Schedl, Lex e Zangerle,) sono tutti, e solamente, esperti d’informatica/IA…
I risultati? Negli anni la musica è diventata… non si sa, perché non era oggetto dello studio. MA i testi quelli sono divenuti più semplici e pure più rabbiosi, nonché auto-referenziali (come anticipava ironicamente I Me Mine dei Beatles, s’è visto insomma un aumento dei "io, me, mio”.
L’analizzare i testi delle canzoni è accademicamente un terreno fertile per più motivi.
Si è orientati nel ritenere i testi delle canzoni uno specchio (abbastanza) fedele dei cambiamenti dei valori e delle norme implicite di una certa società, tipo.… quella nostra liberista. Pare provato, inoltre, che le parole accentuino i sentimenti (es. di tristezza o melanconia) evocati dalla musica, una sorta di turbo. Che le parole aggiungano qualcosa diciamo che lo intuivamo senza l’elettronica, ma dal “brain imaging” sappiamo anche che brani (con testi) cantati tendano ad eccitare zone diverse del cervello rispetto a brani strumentali.
Infine, il terreno linguistico è fertile per i sacerdoti tecnofili e le loro macchine, allietati da poter cercare ‘serie coincidenze’ statistiche, piuttosto che sdrucciolevoli pietre filosofali, nei grandi numeri della musica. Anche se si tratta di cercare espressioni emotive come le canzoni, nessuno spazio è lasciato all’imponderabile: tutto viene compresso in numeri. Credibili. Nonostante le limitazioni che (alcuni stessi) studiosi evidenziano nei loro stessi scritti.
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Altri studiosi (Varnum, Krems, Morris, Wormley e Grossmann - 2021,) questa volta psicologi, hanno determinato, basandosi su 14.612 canzoni tra ’58 e ’16, che la complessità dei testi è inversamente correlata alla quantità disponibile di nuovo ‘contenuto’ (cioè canzoni.)
Il senso che Grossman et al. trovano in questa correlazione è: gli uomini sono “cognitivamente avari” (ovvero: la nostra capacità cerebrale è limitata) e, al crescere della necessità di elaborazione, il cervello rifiuta d’ingolfarsi in temi non letali, come la musica: decide di conservare le risorse (non si sa mai!) andando per scorciatoie mentali. E ci attacchiamo insomma a cosa è più facile capire al volo o quasi.
Perciò oggi contano i primi 10/15 secondi, che determinano se ‘skippare’ o meno un pezzo; al primo ascolto.
Frammenti di un articolo pubblicato (su carta :-) su Blow Up magazine, maggio 2024.