Luca D. Majer
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Woodstock '69. Tre giorni di “pace, amore,” due morti e qualcos’altro.

Il quarto giorno suonò Jimi.

 

 

Ci furono così tante contraddizioni [a Woodstock] e ambiguità come Jimi Hendrix, il quale letteralmente s’avvolse con i lunghi capelli e le gambe nere attorno alla chitarra, fottendola fino all’estasi.” 

Abbie Hoffman, “Woodstock Nation”, 1969.

 

 

 

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È insomma un fatto che, già da subito, quella pubblicità da “pace e amore” per un avvenimento così a qualcuno parve fuori luogo, se non posticcia. “The Myth Of The Machine” (Il mito della macchina © 1964-1970,) un libro del lungimirante Lewis Mumford, decriptava quei “tre giorni magici” [il cui nome completo era: “Woodstock Aquarian Music & Arts Fair,” ma la ‘fiera delle arti’ fu minimale] in maniera diversa: 

 

Il cosiddetto Festival di Woodstock non fu una spontanea manifestazione di giovani gioiosi, ma strettamente un’impresa per far soldi, astutamente calcolata per sfruttare le loro ribellioni, le loro adulazioni e le loro illusioni. (…)  Con la sua mobilitazione di massa di auto e autobus, la congestione di traffico lungo il percorso e l’inquinamento ambientale su larga scala, il Festival di Woodstock riflesse e pure amplificò enormemente gli aspetti peggiori di quel sistema che molti giovani ribelli dichiaravano di respingere. L’unico positivo risultato (…) fu il caldo sentimento di compagnia istantanea prodotto dal ravvicinato contatto fisico di centinaia di migliaia di corpi fluttuanti nella nebbia e nello stordimento della marijuana. La nostra attuale cultura massificata, iper-irregimentata e spersonalizzata non ha nulla da temere da questo tipo di reazione - ugualmente irregimentata, ugualmente spersonalizzata, ugualmente sotto un controllo esterno. Cose’è questo se non il Complesso del Potere Negativo collegato, attraverso invisibili elettrodi, allo stesso pecuniario centro del piacere?

 
 
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A Woodstock era stato normale suonare tutta la notte: venerdì sera la Baez aveva chiuso alle due; sabato la scaletta VIP era partita alle 22.30, tirata per le successive undici ore da Grateful Dead (gran bel concerto,) Creedence CR, Janis Joplin, Sly & The Family Stone, gli Who e i Jefferson Airplane che chiusero con un set tra le 8.00 e le 9.40 di domenica. Ma adesso era quasi lunedì. Nell’interesse di coloro che sarebbero partiti presto, l’organizzazione propose a Jimi di suonare a mezzanotte di domenica, ma pare che Jeffery s’ostinò a che Jimi fosse l’ultimo. Così fu. Jimi e i suoi musicisti aspettarono fino alle nove di mattina. E suonarono, dopo gli Sha-Na-Na (!), davanti ad un pubblico decimato: rispetto agli originali trecentomila di cui parlò il NY Times a caldo, per altri 400/500.000, vennero stimate in 35/40.000 persone e guardando le poche foto, mi chiedo se ce ne fossero dieci mila. Ma si sa dai sacri testi induisti che le cose succedono sempre per una ragione. O meglio, da tre:

 

L’energia materiale consiste in tre modalità - la bontà [sattva], la passione [rajas] e l’ignoranza [tamas.] Quando l’entità eternamente viva viene in contatto con la natura, essa diviene condizionata da queste modalità. 

Bhagavad Gita, 14.5

 
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Quando si trattò di mettersi da solo allo strumento in quella scena desolata, il genio sortì dalla lampada. E bene interpretò la vera anima di quella parata di buone intenzioni, farcita di vecchi malanni e poliziotti in borghese.

 

E, inforcando Star Spangled Banner, il ‘Reverendo’ Larsen (i “fischi” di ritorno dell’amplificatore) che Jimi ormai sapeva giostrare alla perfezione venne gestito come terzo incomodo tra lui e l’inno americano, lasciando bene intendere come quell’inno, suonato di fronte ad un mare di rifiuti deposti con la stessa noncuranza dei cadaveri di My Lai, potesse venire espresso con sensatezza SOLO se presentato in un equilibrio delicatissimo tra la melodia - senza patriottiche parole - e la totale catastrofe sonora.

 
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Pubblicato su BlowUp Magazine, numero di Lug/Ago 2024.