Recensione di un concerto della band elettrica di Ornette Coleman al Palalido di Milano (1980). Dà un'idea di cos'era, ancora nell'80, il riflusso del "Movimento": concerti organizzati in luoghi dall'acustica impossibile, confluenza di tribù differenti di ascoltatori con pochi punti in comune e alla fine soverchio disinteresse per uno dei padri del jazz moderno.
Gli ingredienti credo fossero: un Palalido di Milano (di quelli dove la musica si sente da cani, con le luci della RAI che fanno giorno, ed eco naturalmente incorporato); un completo set di amplificazione (costruito per enfatizzare le deficienze di cui sopra: wattaggio alla Led Zeppelin); duemila spettatori tipo, presi un po’ a caso un po’ ovunque (tra gli altri: jazzaroli doppiopettuti, musicofili tout-court, qualche punkster, un paio di fotomodelle, la sezione distaccata de Il Concerto Non è Bello Se Ci Manca Lo Spinello, Umbria jazzisti in quantità bastante); sei musicisti presi anche loro un po’ volutamente (in pratica un doppio trio: due batterie, Denardo Coleman e Mike Weston, due chitarre, Bern Nix e Charlie Ellerbee, due bassi –elettrici, of course- Rudy McDaniels e Albert McDowell); un sax alto suonato dal leader e capo truppa Ornette Coleman.
Simile intruglio non ha esitato a diventare, in un breve lasso di tempo, indigesto ad un buon numero di segmenti del pubblico. I primi, dopo dodici minuti, sono stati i “puristi del jazz”, con record della pista, seguiti a breve distanza da qualche aficionado di “The Shape of Jazz To Come” e poi dal gruppo, ovvero da tutti quelli che al concerto c’erano venuti attratti dall’abile scritta del manifesto, “Ornette Coleman, il Re del Free-Jazz”. Alla fine della maratona di un’ora e mezza, una tirata vera e propria (Non si uccidono così anche i cavalli?), i più fedeli sembravano proprio i meno credibili: un paio di punksters in giacca di pelle nera, massicci battaglioni dell’esercito Free Joint, qualche (qualche) giornalista.
Le motivazioni di tale morìa di pubblico? Per alcuni – parlo dei jazzofili dalla corteccia dura - la piega che il buon Ornette ha preso quantomeno da “Dancing In Your Head” in poi; ovvero avvicinamenti a quella musica che viene chiamata jazz-rock, flirts con timbri più consoni (consoni?) alla musica pop, tipo chitarrina distorta, charleston e grancassa disco-music, etc. Per altri il discorso si spostava più sull’aspetto fisico-acustico: le condizioni d’ascolto, perciò, quelle stesse condizioni che ti impedivano se più a dieci metri dal palco di capire chi stesse suonando e chi non.
Certi altri, poi, erano stati disillusi (e le illusioni erano stati probabilmente gli stessi jazzofili da corteccia dura ad avergliele create) nelle loro più remote e private aspettative: tipo un bel concerto jazz-rock à la McLaughlin & Cobham, in nome delle many vibrations da anni settanta.
Ma il pubblico rimasto? Perchè era rimasto? Perchè aveva urlato e strepitato? Evidentemente perchè l’Ornette post-’66, quello un po’ elettrico, un po’ funkettaro, un po’-più-free-di-prima piace, anche tanto, ai musicofili senza frontiere. L’Ornette che, caso mai aveste perso il concerto, potete ascoltare con discreta rassomiglianza in “Body Meta” o, ancora meglio, in “Tales of Captain Blood”, del suo ex-chitarrista James Blood Ulmer.
La struttura, a ben vedere, è semplice: al doppio quartetto di Free Jazz adesso è sostituito un doppio trio, non certo simile al primo glorioso esempio vuoi per frmazione vui per talenti. E Coleman, se una volta faceva parte strettamente di un quartetto, ora si pone un po’ al di fuori della bagarre, risultando così oltre che leader anche quasi guest artist e, mi si passi il termine, “ricamatore” ufficiale. La sua posizione, si noti, è strettamente differente da quella del dicembre ’60 anche se l’idea compositiva di fondo (brevi anelli di congiunzione tra più momenti della improvvisazione collettiva) rimane esplicitamente simile. Le musiche sono sempre quelle colemaniane, con il solito spiccato amore per la linea melodica e richiami alla tradizione folk africana, citate dal sax alto e da un trio, con i rimanenti tre lasciati ad improvvisare senza soluzione di continuità sugli spunti offerti dalle parti scritte.
Le varie Macho Woman, Skies of America, Sex Spy o la arcinota Theme from a Symphony sono sveltamente percorse da Coleman in quella che, al Palalido, fa ben presto a diventare suona/orgia/chiasso. Il risultato, certamente s/concertante, sembra ancora essere a favore di Ornette che, tranquillissimo, soffia imperturbabile nel suo sax alto, con fluidità e conoscenza melodica certamente non appannate dal tempo. E’ la sua concezione “armolodica” ad essere padrona della scena, “ritmi, armonie e tempi tutti con uguali relazioni tra loro e, nello stesso tempo, come melodie indipendenti dal resto.”
Certo, è noto, molti hanno avuto (e hanno, ed avranno) di che ridire su questo Coleman a 220 volts; alcuni molto semplicemente lo odiano. E’ anche certo che Mary Hartman, Mary Hartman, magari in duo con Charlie Haden, o Lonely Woman e Dee Dee stuzzicano in maniera diversa (ma non troppo) gli appetiti degli ascoltatori di quanto non faccia oggigiorno la musica di Coleman. Ma è d'altronde anche vero e certo (e con questo vorrei rispondere a chi, per Coleman, spreca gli stessi aggettivi una volta usati con il Miles Davis di Dark Magus o di Live at Fillmore: venduto, roccarolo e simili) che una qualsiasi proposta commerciale –da parte di chicchessia- tenterà accuratamente di circuire il pubblico con miele e burro piuttosto – come è successo al Palalido- di farlo scappare a gambe levate.
Ora, delle due l’una: o Ornette Coleman, alla faccia dei cinquant’anni spesi a studiare musica, è e rimane un inetto, incapace di comporre musica anche minimamente commerciabile (e –diciamolo pure- disonesta.) Oppure, e sarei di questo avviso, non è il caso di parlare di saldi musicali, commercializzazioni o paroloni simili, ma ben più semplicemente di punk jazz. Stile al quale Ornette, me lo si consenta, sembra primo e più degno utilizzatore. Come dice l’adagio popolare: “E chi si offende è fetente”.
(da Discoteca Hi-Fi, maggio 1980)