Luca D. Majer
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La casa di Jon Hassell, nell’estate dell’80, era nella parte malfamata di Park Avenue, a Manhattan. Il suo appartamento era spoglio, con le cose appoggiate per terra, un tappeto, una ventina di vinili, il rumore del traffico. Da quell’appartamento Hassell lascia una testimonianza fondamentale. Il teorizzare musicale di Hassell resta assolutamente valido trent’anni dopo: è la base della musica world. World music.

Come Starbucks ha diffuso il latte macchiato in tutto il mondo, chiamandolo per nome e tralasciando il cognome (“get me a latte, please”), Peter Gabriel ha sfruttato da Passions in poi e con i Real World Studios queste intuizioni (che ho per caso avuto la fortuna di ascoltare gettate sul pavimento di Park Av. South e riverberate in un registratore a cassette), togliendone il nome e lasciando il cognome di quella musica che Hassell chiama del Quarto Mondo. E’ diventato un indissolubile modo di concepire a musica. La globalizzazione sonora che accompagnerà quella economica di fine XX secolo. (LDM – Giugno 2009)

Dopo trent'anni, Jon soffia ancora con indomita freschezza, come prova Blue Period (dall'album "Last night the moon came dropping its clothes in the street"). Qui potete sentirne una versione live alla UCLA, 2009. (LDM – Giugno 2012)

 

 

 

“I miei inizi sono stati dedicati completamente ad una formazione classica. Ho studiato al conservatorio (conseguendo prima il Master e poi un Ph.D.) materie tradizionali come armonia o canto gregoriano e seguendo la strada per diventare trombettista d’orchestra. Quindi nel ’65 sono partito per la Germania e lì, con riconoscimenti da parte del governo tedesco, ho studiato per due anni con Stockhausen musica elettronica. Poi la cosa ha iniziato a non interessarmi più e sono ritornato dalle mie parti – sono nato a Memphis - iniziando a collaborare con Terry Riley e La Monte Young.

Nel ’67 sono andato a Milano, dove mi era stato commissionato un lavoro da parte dello studio di fonologia e, sempre lo stesso anno, ho iniziato una collaborazione con il centro Rockerfeller, dal quale ho avuto anche delle sovvenzioni. Dal ’69 al ’75 ho collaborato attivamente al Theater of Eternal Music di La Monte, mentre è del ’70 la prima Solid State (Time-Sculpted Dense-Spectrum Music) a Washington, ripetuta poi nel ’74 alla Kitchen di New York. Solid State, tra l’altro, verrà pubblicato tra poco su etichetta Lust/Unlust ed in effetti è un lavoro che si collega in un certo senso alla parte rumorosa della new wave; è costituito con oscillatori su intervalli di quinte perfette e anche se non è puro rumore bianco ha tratti simili al neo punk.”

“Dal ’72 mi sono messo a lavorare e studiare con Pandit Pran Nath musica indiana, nella tradizione Kirana. E’ stato un punto cruciale della mia carriera: incontrai Pandit a Roma, stavo suonando e lui si unì al mio suono, iniziando a costruire arabeschi vocali attorno alla mia melodia. Quei circoli, quei ghirigori mi convinsero che avrei dovuto approfondire le mie conoscenze in quel campo. Tutti gli esperimenti in cui ero convolto, da quelli video a quelli con suoni d’ambiente (Elementar Warnings) a quel monumento sonoro concettuale che è Landmusic Series, passarono in secondo piano. Parallelamente si accrebbe il mio interesse verso la parte più strettamente esecutiva, aspetto che avevo sino ad allora trascurato a favore del momento compositivo." 

"E’ in questo periodo che mi avvicinai al jazz: non ero mai stato capace di avere sufficiente fluidità nell’improvvisare con lo strumento per essere interessato alla musica improvvisata, ma proprio dalla mia rivalutazione dello strumento nacque l’avvicinamento alla tradizione jazz. Non però quella classica, piuttosto il Miles Davis elettronico, quello di On the Corner.”

“Il primo disco Vernal Equinox uscì nel ’77 grazie alla Lovely Music e lo feci con delle persone con le quali ero solito lavorare in quel periodo. Earthquake Island, pubblicato dalla Tomato l’anno dopo, invece, lo buttai più sul jazz-rock o quantomeno sulla mia interpretazione del jazz-rock, chiamando gente che con quella musica ci aveva lavorato, ad esempio Miroslav Vitous. Poi venni contattato da Brian Eno che mi aveva sentito attraverso il disco Lovely ed era rimasto affascinato. Una volta pubblicato Possible Musics  devo ammettere che l’interesse verso di me è cresciuto un po’ ovunque e, anche se il secondo albo non era poi andato tanto male, con questo sono aumentate notevolmente anche le vendite. E non solo dell’ultimo disco, ma anche degli altri due.”

“Ultimamente ho anche collaborato con i Talking Heads: ma non è che questa notorietà –dovuta bene o male a Eno - e questo essere richiesto qui e là mi dia fastidio. Forse è solo che non ci credo molto”.

Hassell ha fatto di tutto (“quasi tutto” ammette lui stesso) e ciò nonostante i suoi primi tre dischi mantengono un’inalterata unità di fondo. A lui piace cambiare stile e accompagnatori, “sintonizzarsi” su diverse “lunghezze d’onda”: ma non già per timore di ripetersi (cos’è in fondo la “ripetizione”?) quanto, piuttosto, per tentare di afferrare il maggior numero di colori ed ambientazioni, di possibilità sonore.

Se del periodo passato a studiare il pentagramma in Conservatorio si ricorda giusto per i risvolti pratici (scrivere quella frase, analizzare una certa progressione armonica), preferisce dimenticare quello a fianco di Stockhausen e quello passato a sperimentare musica seriale. Cita una frase di La Monte Young (“è una musica tutto sommato molto triste”) e difende l’ingenuità e la profondità che le sono proprie. Del jazz tira in ballo il Davis elettrico, quello degli ululati al Fillmore, e sbirciando nella sua discoteca, si vedono anche Weather Report; e poi qualche amico odierno, Eno, i dischi Lovely.

Che i tre dischi non posseggano tutti la medesima ispirazione, la medesima rarefazione, è una cosa che non lo preoccupa. Parlandone sembra d’avere davvero superato ogni barriera di definizione, d’etichetta: lo stile, la “categoria” vengono utilizzati per qualità intrinseche più che per le virtù accessibili dall’esterno. Rimane la struttura udibile, questo sì, ma dentro, in questo piccolo mondo popolato dalle tablas, da synt Buchla e di Serge Tcherepnin, da chitarre e bassi, voci notturne, la variazione è d’atmosfera, di temperatura, mai di spessore, concentrazione.

Rispetto alla “svolta indiana” Hassell ha la sua motivazione, una razionalizzazione accurata. Non ama confondersi con i romantici junkies di Katmandu o con i sovracuti del Don Cherry orientale, e qusto nontanto per snbismo, ma perchè della tradizione musicale indiana ha completo rispetto e perchè, dpo dieci anni di studi, si sente ancora un neofta, anzi: sempre più un neofta, nei confronti del suo maestro Pran Nath. La definizione di musica “del Quarto Mondo”, cioè oltre il Terzo Mondo, come appare nella sua più recente uscita, evoca una notizia ottimistica di cultura scevra da ogni divisione e competitività: ed è un concetto, ancora, ben deducibile dai suoi lavori.

Tra le musiche che ritengo possibili in questo mondo vi sono alcune particolari forme che giudico più importanti di altre. In particolare la musica “del Quarto Mondo”, cioè “oltre il Terzo Mondo”, è definita come un suono primitivo/futurista che combina assieme particolarità di stili del mondo etnico con le tencologie eletroniche più avanzate. Nelle sue esplicitazioni più alte, questa miscela di influenze dà la sensazione di un suono nuovo, compatto.”

“Alcuni casi possono essere definiti come “Quarto Mondo cosmetico”, in cui vengono utilizzate definizioni musicali tradizionali arricchite da sapori presi in prestito da strumenti esotici. Alcuni lavori sono esempi di Quarto Mondo “coperto”, che in un certo è l’opposto dell’approccio “cosmetico”. In questi casi la struttura di lavoro originale di una musica etnica viene presa in prestito e presentata con un arrangiamento occidentale. Qui il prestigio del lavoro aumenta proporzionamente alla ignoranza del pubblico nei confronti del lavoro originale. In alcuni casi esiste un Quarto Mondo “inconscio”, come nel caso della musica pop asiatica o africana, che assimila alcuni aspetti del pop occidentale, pur mantenendo colori e spiriti delle tradizioni locali.”

L’ultimo caso ipotizzato di Quarto Mondo musicale è quello “visionario” cioè quello che, partendo da una conoscenza più o meno perfetta delle varie esplicitazioni di musica etnica nel mondo, estrapola verso il futuro e/o il passato queste conoscenze, tentando di presentare qualcosa – uno stato d’animo, una visione, un particolare senso del tempo - in una determinata e coerente forma sonora.

“Questa particolare forma di musica è quella che più m’interessa al momento, ma nella mappa delle musiche possibile non è che una possibilità. Altre possibilità sono date, ad esempio, dalla musica con più livelli d’ascolto, dove – è nella tradizione della critica d’arte - il lavoro capace di trasmettere segnali su di un numero rilevante di livelli è considerato “più ricco” rispetto a quello capace di comunicare su di un solo livello.”

“Altro esempio, ancora, è quello di musica nata su di una struttura a banda ristretta – ad esempio gli ibridi della pop art – dove il lavoro si articola su di una base delimitata dalla necessità di espressione esclusivamente attraverso il long playing, da una parte, e dall’altra da un seguire le richieste del mercato, dove i media non soltanto riflettono bensì creano ex novo le attitudini del pubblico”.

La distinzione tra le altre due forme di musiche possibili, quella “alta” (classica) e quella “bassa” (pop), varia secondo le latitudini: nelle culture africane e indiane, ad esempio, la musica classica è sensuale, costruita su ritmi molto accentuati (“jungle rhythms”), e l’improvvisazione gioca un ruolo primario, con il risultato – esprimere un determinato sentimento o modo d’essere - che viene compreso da ogni classe di persone. Nella tradizione occidentale, viceversa, non esiste una forma musicale considerata classica ove l’improvvisazione giochi un ruolo primario; e così pure qualsiasi musica che utilizzi delle inflessioni apertamete sensuali o accentuatamente ritmiche è perennemente relegata a ruolo di musica “bassa” (jazz, pop d’atmosfera). E’ un meccanismo razzista quello che qui opera: “fai questo, non fare quello”.

Ulteriore divisione tra musiche possibili è quella operabile tra un approccio sincero e un approccio ironico.

“Anche se in questi ultimi anni la mossa dell’ironia è stata giocata spesso, in particolare dai gruppi del nuovo rock, e con le peculiarità che la contraddistingue (approccio distaccato, intelligente, solipsistico), non esiste un sostituto reale alla tramissione diretta e alla ricezione di messaggi proveniente dal cuore. L’ululato del coyote è avvertito con grande intensità (se non ci si accosta ad esso ironicamente) perchè è sentito profondamente da una – quella - creatura che conosce solo come essere se stessa e che dice ciò che questo comporta. La musica può essere così, ma è molto raro”.

Altri aspetti della new wave, altra musica possibile, possono essere letti come svincolamenti contro lo strozzamento della musica da parte del’industria a favore dell’apertura di nuovi raggi d’influenza. (Attenzione: la ribellione è utilizzabile di seconda mano per venderla in offerta speciale). In questo senso le musiche possibili possono essere gerghizzate come new wave “orientata all’ascolto” in contrasto a quella “orientata al ballo”.

Completata la struttura concettuale entro la quale il suo operare si dovrebbe svolgere, Hassell s’interessa – la successione non è strettamente temporale - a modificare, asservire le caratteristiche del suo strumento ai propri voleri. Introdotto da Pandit Pran Nath in quelle che lui chiama “mutazioni continue”, questo perenne variare della linea melodica, questo inghirlandare una frase con microtoni udibili a stento, il problema era di tradurre simile tecnica nella tromba. Ed Hassell ci riesce, sconvolgendo in buona parte la tradizionale tecnica dello strumento. Il suono, spiega orgoglioso, non è più modulato dalle valvole ma è esclusivamente modulato dalle labbra e dal bocchino cosicchè è possibile ottenere quella policromìa timbrica (“quelle a-e-i-o-u così semplici per Pandit”) agendo sulle valvole, senza che questo modifichi la frequenza del suono. Ciò permette di passare all’istante da una tecnica di modulazione tradizionale ad un glissando “completo”.

Qui, insomma, nasce la sua snake trumpet, quel suono cupo, magari alterato da un sintetizzatore o moltiplicato da un echoplex, sinuoso all’impossibile. Quello strumento che evita la constatazione di una melodia ma che, attorno ad un riferimento flebile, costruisce il suo regno fatto di variazioni minimali, un perenne, sottilissimo lavoro mai ultimato, che non si stanca di ripetere i mille intervalli che separano due note.

Come musica possibile, la musica di Hassell trasmette a più livelli, ma è difficile cogliere il marchio “d’ambiente”, o leggervi una qualsivoglia ironia. Il cammino, piuttosto, conduce alla “musica eterna” ipotizzata da La Monte Young, al completo controllo delle possibilità sonore, al livello sul quale impulso e motivo sono immediatamente tradotti dal suono, senza filtri razionali. All’ascoltatore occidentale viene da pensare ad altri esperimenti (e ce ne sono: dal Wonderwall di George Harrison, a Quintessence, a Mahavishnu) ma il paragone, la sola parola è davvero blasfema. Vernal Equinox e Possible Musics – questi due, in particolare - lasciano attoniti per le visioni incluse gratis nei solchi, per quel permettere una sottigliezza d’ascolto esemplare: c’è sincerità, ingenuità, nessun obiettivo, se non il lasciare decantare uno specifico stato d’animo, far sì che il tempo, il suono, lo spazio lo cambino.

Un viaggio fuori dal contemporaneo, potrebbe dire qualche fanatico del partecipazionismo, ma non è neanche così. Il Quarto Mondo (che Interview ha definito semplicemente: “Quello che ottieni sommando il primo – Eno e Hassell - al terzo – Nanà Vasconcelos e Aybe Deng”. Beata idolatrìa di ogni formula multi-uso) è, volendo, interazione, musica in divenire. Lì il patrimonio etnico, un esperanto musicale che veda e legga in sè kalimba e koto, chitarra e steel drums, mentre qua sono le conquiste della tecnologia. Le varie unioni possibili possono mancare in alcuni casi di continuità logica ma in altri, al contrario, rappresentano (per Hassell, senza sorta di dubbio) la fusione di ogni cultura musicale in un unico prodotto, come tale universale. Universale nei risultati, non negli intenti, ci viene detto.

Nel disco Possible Musics, nei momenti migliori di questi 45 minuti, si riesce a raggiungere un’unione suono/immagine del Quarto Mondo; si mostra la possibilità di un nuovo contesto per il virtuosismo strumentale; si toccano livelli di profondo sentimento; e, in generale, soluzioni standardizzate sono scartate a favore di scelte più avventurose.

“Il titolo del pezzo che occupa la seconda facciata, Charm (Over “Burundi Cloud”) riflette una formula compositiva nella quale il primo piano Charm (quark charm, snake charm, sexual charm) evolve lentamente da un brusìo consistente in due suoni-momenti “congelati” (circuitizzati digitalmente in modo da essere ripetuti infinitamente) chiamati Burundi Cloud. Questo sottofondo “predice” il contesto, i colori e i limiti entro i quali la musica  può sviluppare se stessa. L’idea deriva dalla antica forma indiana di composizione che prescrive gruppi di note, forme delle note, ornamenti, inflessioni ritmiche, ecc. e, soprattutto, uno specifico stato d’animo, per ogni raga."

“Infine il lavoro grafico – un foto scattata da un satellite di un’area a sud di Khartoum - può essere visto come correlato visivamente al pensiero musicale: una parte “primitiva” della Terra come la si vede da un punto dello spazio.”

Rimane il dubbio sullo spazio d’intervento della tecnologia occidentale contemporanea; come questa riesca ad interagire – con i suoi scatti quotidiani, le continue “scoperte” - con una cultura formata e modellata dal tempo. Hassell non è pessimista. La tromba, strumento di cesellatura, raramente si affida a manipolazioni esterne ma quando succede, a variare è giusto il timbro, la sua qualità, non l’altezza delle note. L’andamento serpentino, l’accavallarsi come nei raga di note separate tra loro da quarti di tono in una progressione studiata, il sinuoso flettersi delle linee come di alghe su di uno scoglio sommerso, sono “effetti” prodotti dall’uomo e la tecnologia si limita a colorire gli spazi bianchi del (come lo chiama Jon) “brusìo sottostante”: si adopera soltanto per una migliore intelligenza del risultato finale. Nei tre dischi non vengono utilizzate grandi strumentazioni: c’è un harmonizer, che raddoppia una singola nota con un’altra di intervallo desiderato, ci sono vecchi loops resi di più semplice attuazione con macchine d’eco programmabili, ci sono synt sparsi tra le righe.

C'è soddisfazione, dopotutto, in Hassell: “L’ultimo disco è piaciuto molto anche a Pandit” però, poi, si ravvede: “Mi piacerebbe lavorare in Europa, Parigi, Roma… non che qui viva male, ma ci sono stati dei brutti momenti in fin dei conti…

E nella casa del trombettista ritorna il rumore del traffico, Park Avenue South, piccolo appartamento spoglio, tè indiano, una cassetta di un concerto al Mudd Club. Vive così anche Brian Eno?

 

Da: Musica 80, Gennaio/Febbraio 1981