Luca D. Majer
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Ricevetti commenti amorevoli ma ironici per avere indicato Arto come il Clapton degli anni Ottanta. Rimane per me definizione coerente.

Negli Ottanta - come si dice nel pezzo- la linea che unisce la chitarra di Charlie Christian giù fino all’ultimo nero che rivendicò la black supremacy sullo strumento a sei corde (Jimi Hendrix) s’interrompe. E’ gente come Arto Lindsay e al massimo il suo alter-ego colto (e bianco anche lui) Rhys Chatham a prendere in mano le redini della ricerca chitarristica, portandola più sul concettuale e meno sull’istintivo.

Nei Novanta, poi, chissà chi merita il titolo. Chessò: Steve Lukather? Tanto il ciclo s’ era completato negli Ottanta. Dopo il no-wave dei DNA e dei loro compari (Mars, Lydia Lunch, James Chance etc.), il resto sarà silenzio, come novita'.

Di fatto Arto partirà per il Brasile dove si mette a produrre musica con serafiche basi ritmiche latin, mettendo quasi del tutto in naftalina il "Clapton degli anni Ottanta" e partendo per la tangente.

 

LM – giugno 2009

DNA

 

Arto

 

Lounge Lizards

 

 

(Articolo originale pubblicato su Musica 80 - ottobre 1980)

 

ART ’ O ROCK

Arto Lindsay, una prossima star Quello dei DNA, quello dei Lounge Lizards e il riff delle sei corde

 

Alto, magro, miope, chitarrista, vent’anni o poco più, di New York City. Forma un gruppo -i DNA- nella serena certezza di risultare improponibile ai più per via di certe estetiche (musica come intrattenimento, corollario, dolce riempitivo/inutilità da coltivare) diffuse quanto pervicaci: accettando quindi il semi-anonimato, l’occupazione in alternativa, il lavoro di musicista part-time. E non cerca neppure per un bel pezzo la via al pubblico. Pochi dischi (il cui successo va tutto a Eno, come produttore) e concerti ancora meno.

Eppure Arto – quel poco di Arto che arriva alla superficie- affascina: non conosce compromessi, accomodamenti, assestamenti, concessioni, digressioni. Può cambiare posizione e peso dentro al singolo gruppo, da leader dei DNA a coloritura della Love of Life Orchestra, ad outsider coi Lounge Lizards: ma lui, in se, non cambia.

L’idea di base qual’è? Lui dice “la melodia è stata fraintesa, l’amo in una canzonetta”. (Melodia, è sottointeso, è anche un grumo di brutti suoni, una linea frastagliata di chitarra, la trafila accordi-linea melodica sovvertita, il dimenticare/ignorare la tradizione e/ma resuscitare possibilità strumentali dimenticate ab aeterno…) Il discorso è sottile: si invoca non già la massicciata di suono aggressivo, bensì l’interpretazione –personalissima- della chitarra rock: “Il sound DNA non è un muro di rumore, la cosa non sta in questi termini. Non vogliamo attaccare il pubblico –se non di rado, e ironicamente. E non facciamo distinzioni tra quello che noi vogliamo suonare e quello che un pubblico rock si aspetta di sentire ad un concerto.” Quindi il sound del gruppo traduce se stesso, non cerca appigli, referenti, modelli, maestri, mimesi. Da qui la secchezza del personnel DNA, chitarra-organo-batteria: sempre.

“Perchè aggiungere strumenti? La musica è l’interazione dei tre e il rapporto di questa con il contesto armonico. Questo non può creare limitazioni. E di fatto non le crea.”

Etichettarlo chiasso - anche solo etichettarlo - è sbagliato. E non è neppure il caso di chiamare in causa l’alienazione metropolitana, la Grande Scusa di questi anni, il miglior strumento, in genere, per circoscrivere l’indescrivibile. Sarà piuttosto il caso di parlare di sarcasmo alquanto verminoso, piuttosto cattivo, positivamente contagioso. E anche di una serietà – comunque - di fondo, un rigorismo da musica scritta, e invece inventata al momento.

Se poi cambia qualcosa (adesso al posto di Robin Crutchfield c’è il basso di Tim Wright, già Pere Ubu), non cambia l’alzo del tiro: nenia arrabbiata, nonsenso chitarristico, tormentone e tum pi tu tum vanno avanti con il riff del quattro corde. Rien ne va plus, si ricomincia senza resipiscenze.

Arto è l’Eric Clapton degli Ottanta, davvero. La arrestabile ascesa delo strumento rock per eccellenza punta alla Danelectro 11 corde di Lindsay. Lo schitarrare del personaggio è impareggiabile. Via gli squallidi gimmicks, via i ticchettii distorti e wah-wah lancinanti, cosa resta? Ovvio: il rapporto fisico; e la disinvoltura del signore in questione. Che lo rende, questo Arto, allo stesso tempo potenzialmente imitabile e praticamente inimitabile. 

“Mi piacciono molto a battteristi”, dice, e a sentirlo suonare lo si capisce. La chitarra armolodica, quasi quasi, l’ha inventata lui, non James Blood Ulmer; e quella ritmarmolodica è tutta sua. Tre in uno. Return of the Heartbreak, assieme all’orchestra di Peter Gordon, al LOLO, ne è un esempio: la nuova chitarra ritmica non è solo ritmo puro. E’ ritmo, ma anche linea melodica scoscea, il cui sviluppo è più failmente intuibile quando Arto èspalleggiato da una base armonica ortodossa, ma che non è impossibile –anzi, dà maggiore soddisfazione- qualora sia lasciata libera di esprimersi senza altri appigli sonori per l’ascoltatore, in completa solitudine. “La mia accordatura è un’accordatura molto semplice: standard” eppure, a sentirlo, ci si chiede come sia possibile tirare fuori da una chitarra suoni così contorti, volendo ossessivi.

Il “pieno orchestrale” non-stop che è il suono Lindsay sembra unico, per tenacia e vigore, un piccolo Cecil Taylor della 11 corde, insomma, anche se –dall’improvvisazione libera- dice di non aver appreso poi tanto. “Sì, so che esistono chitarristi di free jazz, gli stessi Sonny Sharrock e James Blood mi piacciono, ma non è da loro che ho preso. Piuttosto da gente come i chitarristi dei Mars, delle altre band che giravano per NYC ai loro inizi e all’inizio di DNA.”

Il suo approccio, alla lunga, potrebbe sembrare a senso unico, monolitico. Lo stesso John Lurie, capitano in prima dei Lounge Lizards, ha pubblicamente espresso dubbi al riguardo, ma la conclusione (“Se cambiassi Arto in ogni caso la scelta ricadrebbe su di un chitarrista atonale”) lascia intravedere – la fonte è autorevole - quali possono essere gli sviluppi della linea Charlie Christian-Chuck Berry-Jimi Hendrix. E’ impensabile, insomma, ritornare, forse anche solo ogni tanto, a qello che la chitarra ha significato fino ad ora, al buon vecchio simbolo fallico, al caro logorroico a parte à la Jimmy Page, al funanbolismo di tanti Sultans of strings da quattro soldi. Il potenziale dello strumento, la sua capacità di sgomentare le nuove generazioni sono ancora tutti racchiusi nei ventidue tasti del generatore di musica più popolare al mondo. Seguire gli sviluppi, volendo, è duro, ed altrettanto affascinante.