Luca D. Majer
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Articolo previsto per uno speciale "kraut-rock cosmico" o qualcosa del genere.

Articolo "tecnico" dall'indole scontrosa rispetto all'agiografìa ufficiale del genere "Corrieri cosmici" (oppure "comici".) 
Quiiindi... vabbé, resta edito "solo" in web, LOL.

Potete verificare il testo proposto in alternativa a questo sulla rivista Blow Up: goutez et comparez.

 

Florian Fricke, 1968

 


L’associazione iniziò oltre-Oceano, tramite film di fantascienza e documentari sssientifici. Poi si rese più manifesta, grazie alla convergenza -inizio anni 1970- della stampa (musicale o di grande tiratura) ad associare gli inauditi suoni dei synt ad una dimensione metafisica.

Diventando uno dei paradossi fondanti della musica che chiameremo “cosmica”: per arrivare ad una sorta di illuminazione interiore, ci dicevano, devi puntare sul timbro dello strumento, cioè dipendi dalla Tecnica.

 

A livello concettuale affermavano (i Tangerine Dream sempre, ma all’inizio un po’ anche i Popol Vuh, anche se poi avrebbero rinnegato il trip tecnico andando di acustico non poco) che un oscillatore sintetizzasse la Vera Conoscenza meglio del fiato di Hariprasad Chaurasia soffiato nel suo bansuri.

 

La tendenza, all’inizio alimentata anche da una supposta ricerca lisergica verso la Verità, si staccò dall’ideologia iniziale di purezza enteogenica, per andare alla deriva verso l'essere una carrellata di "demo" di strumenti musicali sempre più nuovi e dalle sembianze sempre più simili al cruscotto di comando di una missione NASA. 

 

Vista altrimenti, il termine "Kraut-Rock" pare fu l’ufficio stampa del Mail Order Virgin a crearlo, così battezzando una sezione “Kraut-rock” per il loro catalogo.

 

La versione venne messa in dubbio nel 2003 da Zappi Diermeier dei Faust, il quale - intervistato dalla rivista musicale inglese Wire -  affermò al contrario che fu il loro gruppo ad inventare il termine. La ragione è un po' ampollosa:

 

perché univa le due uniche cose che non eravamo: kraut, nel senso di tedeschi della vecchia generazione, e rock.

 

Il termine Die Kosmischen Kuriere - poi divenuto uno stile: i “Corrieri Cosmici” - era invece della casa discografica inventata nel ’73 da Rolf-Ulrich Kaiser, un ex-DJ che dall’Olanda (?) ritrovò la mecca in Germania fondando la Ohr.

 

Kaiser era il tipo che orgogliosamente affermava alla stampa di non esser in ritardo rispetto alla prossima moda (quella cosmica appunto) lui che non aveva mancato - diceva - né la moda beat, né quella psichedelica. Mode che anche Froese e Baumann seguirono, pure “suonando qualsiasi cosa chiedessero” ai soldati “dell’esercito e della marina” USA di stanza a Berlino.

 

“Cosmico” per Kaiser implicava una visione (cito Ulrich Adelt da “Krautrock”, 2016) “di una identità cosmologica deterritorializzata e post-nazionale che coinvolgeva l’uso di allucinogeni e la creazione di nuovi suoni, specie con il sintetizzatore.

 

Ma a ben guardare il termine “cosmico” venne lanciato - proprio durante il culmine simbolico della “corsa allo spazio” - per saldamente picchettare il vasto territorio di timbri sintetici (tutti da conquistare) generato da questi nuovi strumenti dell’emergente industria dell’elettronica di consumo.

 

In sostanza il "sound cosmico" divenne un nuovo cliché d’arrangiamento musicale basato su colori, timbri, insomma un insieme di suoni associati sino ad allora ad una piccola e impopolare avanguardia di ricercatori. Ora quesi suoni ostici e aritmici erano stati opportunamente smussati, levigati, ritmati e portati in un contesto di armonie assonanti e rallentate melodie “pop”, con accenni a dissonanze che nei Sessanta s’erano peraltro leggermente ispirate a Webern o Stockhausen e compagnia e spante già - in dosi omeopatiche - in grandi film di cassetta come “2001” di Kubrick o il “Pianeta delle Scimmie.”

 

D'altronde, gli stessi Floyd dei primi o degli secondi albori (1967) avevano già frequentato astronomia, pianeti e satelliti, o no?

 

Del cliché pop-cosmico il braccio tecnologico della UE (a.k.a. la Germania) si prenderà cura con la c.d. “Scuola di Berlino.” Che, al suo inizio, esiste ragionevole convinzione che (appunto) fosse basata principalmente sul far ascoltare suoni inauditi, piuttosto che chiedersi cosa farne.

 

Sul tema torna utile una intervista del 2016 di Baumann rilasciata a Loudersound.com, in cui spiega come Froese arruolasse gli organisti dei Tangerine Dream, quantomeno nel ’71: “Conoscevo la differenza tra tasti bianchi e tasti neri, ma quello era più o meno tutto” ammise candidamente Baumann, nell'intervista. E spiegò:

 

Mi incontrai con loro e Edgar [Froese] disse: ‘Inizia a suonare.’ Tutto lì.

E dopo venti minuti…

Edgar disse: ‘Yeah, che figata! Andiamo e facciamo un concerto.’

L’unico con formale istruzione musicale era Franke. Per carità, tutto ok nel pop. Ma ciò non impedì a Froese di costruire sopra a queste semplici improvvisazioni una filosofia cosmica (per decenni strettamente non psico-attivata, peraltro, bensì serissima se non seriosa) con apodittiche o circolari affermazioni del tipo


Working with synthesizers is a completely different approach to electrified music

o:

we never played electronic music.” 

 

Fast-forward al 2020. Erano forse quarant'anni che non ascoltavo Birth of Liquid Plejades, i 20’ che coprono la prima facciata di “Zeit.”
Al controllo nella lunga distanza… la cosa migliore del disco. Nel ‘73 musica imperfettibile per conoscere i ‘Corrieri Cosmici’; oggi musica che mi accompagna (il caso!) durante il raro allineamento di Giove e Saturno nel cielo terrestre di questi ultimi giorni del tristo 2020…

 

Quarant’anni SONO un’implicita ammissione di mio scarso amore per la macchina Tangerine Dream® avviata proprio con questo terzo album da Edgar Froese, Christopher Franke e Peter Baumann. Ma il primo ri-ascolto mi ha aiutato a rammentare l'enorme senso di aspettativa che questa musica (questi suoni inauditi) presupponeva(no) agli inizi Settanta. Era musica da meditazione, lasciavano capire gli ‘esperti’ come il divulgatore Kaiser. 

 

Con il beneficio del tempo appare evidente che l’idea fosse di creare un bastione fieramente tedesco nella guerra di soft-power menata nel rock mondiale, soprattutto da USA e UK.

 

Lo si scorge leggendo l’articolo della rivista Flash (n° 11 del 1972, in tedesco), dove Kaiser dà la sua testimonianza di quella che chiama “la prima super-session” alemanna - che poi sarebbe l’incisione proprio di Birth of Liquid Plejades.

Leggenda vuole che il macchinoso Moog Modular di Florian Fricke dei Popol Vuh fosse (così costoso e raro da essere) l’unico in Germania e che Froese, Führer dei TD, lo volesse aggiungere alla paletta di timbri. Così il Moog arrivò in "Zeit"... con Fricke incorporato.

 

Storia apocrifa? Su Flash, Kaiser la spiega diversa: “quando Florian Fricke (Popol Vuh) mutò dalla Liberty alla Ohr, uno dei motivi fu di potere suonare insieme agli altri “Gruppi Cosmici”, Ash-Ra Tempel e Tangerine Dream. E quando Edgar Froese venne a saperlo, invitò Florian Fricke alla successiva produzione.

 

Quale che fosse l’intenzione, la cosa venne gestita per lanciare il “suono cosmico” con un disco doppio di una band il cui leader era stato roccarolo e ‘psichedelico’ con The Ones, una band invitata pure a Cadaques chez Salvador Dalì.

 

La ricerca di sfondare o quantomeno “creare mercato” di Froese e Kaiser (fottendosene degli stili musicali,) ricorda l'intraprendenza commerciale di Björn e Stikkan (il primo è il biondino degli ABBA e il secondo il loro produttore: cfr. Blow Up #242/43.) Kaiser, da bravo venditore, disse a chi stentava a trovare la “trama Tangerine Dream” di “ascoltare più volte per capirli.” Oggi sappiamo che i pezzi erano perlopiù improvvisazioni collettive e borborigmi elettronici vari.

 

È infatti "agli atti" che la costruzione armonica dei pezzi si sviluppava perloppiù su canovacci accidentalmente atonali (anche se Franke aveva studiato Penderecki e Stockhausen) mentre i suoni (‘nuovi’ e/o con molto eco e riverbero) facevano affiorare qua e là idee sonore che Ligeti aveva già percorso. Il tutto confezionato con un carisma d'avanguardia "pop/olare."

 

Ma se Ligeti usava competenza, struttura (e niente Tecnica-a-transistor) per scagliarsi con violenza politica contro Stalin, i Tangerine Dream smussavano le asperità della visione ligetiana, formalmente toglievano la politica (ma vi sostituivano l’apologia tecnica), giusto aggiungendo nuovi timbri e sfruttando l’idea di stratificazioni strumentali di gruppo.

 

“Zeit” fornisce insomma a TD le credenziali intellettuali necessarie per potersi muovere al centro di un movimento culturale più grande di loro da cui trarranno rilevanti vantaggi economici a partire dal successivo album (“Atem”), motivo d’ingaggio da parte della Virgin di Richard Branson.

 

Che finalmente con “Phaedra” lancerà la band nel mondo. La fase eroica dei “corrieri” (tanta gloria, poca grana) durerà poco, ma quella commerciale fino ad oggi. Perché le iniziali ricerche sul suono sfoceranno in un easy-listening-cosmico che usa synt e sequencer in accoppiata, a rimpiazzare nell’ascoltatore la necessità di una sezione ritmica da rock band.

 

L’inizio delle Pleiadi liquide vale - lo chiarisco - il disco, con i quattro violoncelli (condotti da Joachim von Grumbkow, leader degli Hölderlin) a snocciolare saggi di psicologia sonora, persi tra battimenti e gli armonici generati da piccoli intervalli tra le note e i glissando, cromatica intrusione tra intervalli. Gli archetti trasmettono la vibrazione dell’esecutore, in contrasto alla  rotazione di manopole degli envelope filters degli oscillatori.

 

L’afrore sonoro si dirada però alla fine dei primi sette minuti: quando il quartetto di violoncelli lascia spazio al Moog di Fricke (sotto il plumbeo pedale generato dai TD) ed ecco che Fricke ti scodinzola garrule note dal suo Moog che mai più si sentiranno nel disco. Vita, non tecnica, stramberie da cardellini.

 

Quel Moog ciarliero diverrà l’unico VERO risultato della “super-session” perché Fricke (evidentemente usmata l’aria) prese il Moog e se ne tornò al sud, ciò anche perché -a Froese non sarà di certo sfuggito- quelle note impertinenti incominciavano a fornire uno spirito ben diverso al disco.

 

Per sviscerarlo consiglio su Bandcamp Il giardino di tutte le delizie di Marco Lucchi, atto d’amore verso quegli sghiribizzi, che sgrana (in 65’!) come un rosario pagano, insieme ai maestosi cambi d’accordi di quel pezzo -beh- storico

 

Che invece il resto di “Zeit” sia oggi da considerarsi un capolavoro, non direi. La dipendenza (che Fricke seppe annullare per qualche minuto) dall’evoluzione dello strumento tecnico, come misura dell’espressione, ne resta il principale motivo.