Luca D. Majer
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Sugli ABBA.

Olof Palme

 
 

Anna Lindh

 
 

Hansson & Karlsson

 
 

Dopo 35 anni dall’ultimo disco, ABBA ha in programma un tour. Di ologrammi. Davanti al futuro, tempo di tirar le somme sul passato?

 

«La libertà democratica ha bisogno di solidarietà tra la gente. Per vivere e sopravvivere una società deve avere una solidarietà diffusa, la capacità di riconoscere la condizione delle altre persone, un sentimento di responsabilità congiunta e partecipazione. Altrimenti, prima o poi, la società si disfa in tante parti di egoistici e meschini interessi. Non c’è mai un “noi” e “loro”. Ci siamo solo “noi tutti.”»
Olof Palme al Kenyon College, 1970

«I don’t get that. Do we look like transvestites or something?»
Benny Andersson, sulla moda “Gay-ABBA”

 

Benny con gli Hep Stars aveva spaccato il 23 marzo 1965, quando riuscirono ad arrivare in tv e a mostrarsi per ‘innovativi’ svedesi gigioni che andavano di pop-rock d’ispirazione americana (Cadillac) e facevano sognare di boom economico e di altrove, mica di folk da contadini scandinavi: “eravamo divertenti da guardare, saltavamo sulle casse e scuotavamo le teste” dirà poi Benny, che fece installare sotto il suo organo delle rotelle, per schizzare da una parte all’altra del palco, sempre in inquadratura.

E, in concerto, gli Hep Stars non preparavano gli strumenti com’era d’uso all’epoca, ma comparivano sul set già pronto, poi suonavano e viavia! scomparivano, dandosi arie da star e firmando al volo solo qualche autografo. Senza esserlo veramente, avevano l’attitudine degli idoli irraggiungibili, usando tecniche USA da creazione di celebrità.

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A chi prova ribrezzo ad ascoltare gli ABBA suggerisco di fare così: iniziate ad ascoltarvi le covers di artisti semi-carneadi. C’è un chitarrista vietnamita forse dodicenne, Sungha Jung, che fa quasi venir le lacrime agli occhi quando rifà The Winner Takes It All. Poi ci sono altri chitarristi: come Dieter Wegner (One Of Us), Per-Olov Kindgren (un’intimista dalla quasi medievale Thank You for the Music) o Emil Ernebro (Happy New Year, dal sentore methenyano) che iniziano a ri-abituarci al rubato, al sottointeso, al silenzio. Così pure fanno, al piano, Ulrika A. Rosén (Money, Money, Money - che indaga l’anima classica del pezzo) o Harry Völker (Thank You for the Music).
 
Versioni che fanno tastare la trama sottostante di canzoni i cui originali, soffocati da arrangia- menti iper-trofici, asfissiano per il loro essere troppo. Anche troppo schmaltz - nel senso che i nostri due B avevano dato al termine: “del country con un beat tedesco”.

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Pubblicato su Blow Up, numero luglio/agosto 2018. Qui l'inizio dell'articolo.