Luca D. Majer
Caffè  Musica  ed altro  
 

 

#10 BTExM 

Robert Wyatt - Little Red Riding Hood Hits The Road (from "Rock Bottom" - LP 1973)

Grande e compianto: Mongezi Feza

 

 

 

 

Il 1° giugno 1973, per la musica prog-rock, è una di quelle date indimenticabili, essendo che fu il giorno in cui Robert Wyatt tracannò ad un party un tramortente mix di vino, whisky e ponce. Per poi cadere (o buttarsi giù, a seconda delle versioni del protagonista) dal balcone dell’ospite, la cantante Lady June. Ivre mort e perciò salvo dissero i medici (i muscoli non si contraggono quando sei ciocco e voli giù)… da lì iniziò, come una fenice, una sua differente re-incarnazione.

 

C’è chi ha scritto che Wyatt prese la cosa con filosofia. S’era addormentato batterista licenziato dei Soft Machine. Si risvegliò comunque cantante e autore. Anche se in sedia a rotelle. 

 

Quando andai a trovarlo nella casa a Twickenham che gli aveva regalato l’affascinante (e mecenate) Julie Christie, suburbia londinese, direi settembre 1979, Wyatt ammise che registrando “Rock Bottom”, il disco che seguì l’incidente, tutto era andato liscio come l’olio. Robert aveva avuto la possibilità di prendere del tempo a una vita sino a lì sempre vissuta “in corsia di sorpasso,” trovando il tempo per riordinare le idee e buttare giù le prime canzoni del disco già prima dell’incidente. Quando la compagna Alfreda/Alfie l’aveva trascinato a Venezia, per via di un suo lavoro di assistenza nella produzione di “Un inverno rosso shocking a Venezia.” Ma dopo l’uscita dall’ospedale il dado era tratto.

 

Forse “Rock Bottom” è un album che sta nella classifica delle dieci più grandi opere musicali di sempre, come rappresentante dell’ “altro rock”, per quel suo essere un rock sotterraneo, subacqueo, melmoso, da cui spuntano le influenze del (free) jazz nero africano e britannico, delle nursery rhymes e del folk anglo-psichedelico, del blues (più come pathos e tensione, che altro), o dei compositori francesi di fine XIX, come della musica del nord dell’India. E in più ha quel lato veramente “Dark Side Of The Moon”, quell’essere uno statement di certa musica di un certo tempo, eppure destinata a diventare definitiva, immortale.

 

Da sempre, senza esitazione, Little Red Riding Hood Hits The Road resta la mia preferita di questo disco indimenticabile. Perché? presto detto. L’armonia vi gioca un ruolo importante. Parte da un pedale con un accordo di La maggiore (per un verso il papà di tutti gli accordi: gli strumenti s’accordano con il La) che -però- si alterna (insieme alla voce in reverse) a due La sus (La sus4 e La sus9). “Sus" come in sospesi, perché non si può dire se sono maggiori o minori in quanto nell’accordo manca la terza, sostituita appunto da una quarta o da una nona.

 

Spiegazione tecnica che in pratica vuol dire che il pezzo inizia con tre accordi che ti mandano in leggera narcosi sonora, con un’essenza da “maggiore” che però rimane tra il detto e il non detto. Dopo questo pedale dall’effetto onirico, inizia la strofa, il giro di accordi vero e proprio, con risoluzioni che invocano la musica degli Dei da tanto che scivolano bene: prima strofa strumentale, poi con la voce bianca di Bob e infine col testo. Alla fine della terza strofa (“Stop it!”) la traccia ritmica di base viene presa e copiata ribaltata, cioè in reverse, con la sequenza armonica ri-sbobinata all’incontrario (salvo il basso elettrico, registrato in diretta, che negli ultimi minuti si dà da fare in una graziosa impro-rock.) Insomma metà della canzone è per metà lo specchio dell’altra. Che si traduce in questa gran sensazione di ulteriore estraniamento sonoro, tipica del reverse recording, dove -per via della struttura- la frase ti sembra di averla già sentita, ed in effetti è quella, ma vien detta all’incontrario.

 

L’arrangiamento mi lega a vita a questo pezzo perché -per marcare le armonie- al piano viene accostata la tromba del mitico sudafricano Mongezi Feza. Uno strumento melodico a fare armonie? Sì, con sovraincisioni e delays lunghissimi, Mongezi crea droni armonici, abilmente gestiti da Wyatt e da Nick Mason. Il quale nel produrre “Rock Bottom” portò -dai Pink Floyd- la maestosa spaziosità del loro suono (avevano appena finito "Dark Side of The Moon"!) e quella sorta di 'qualità definitiva alla Floyd' fornita in prestito d'uso al materiale sonoro di Bob, del tutto fuori dagli schemi della “musica d’intrattenimento.“ 

 

Sta di fatto che questi suoni ti arrivano nella colonna vertebrale e li avverti uno per uno, però suonano come cosa diversa, anzi una cosa sola. Così ad esempio è l’inizio stesso del cantato (“Orlandooon’t tell me, oh no…”), dove la voce è un promontorio che svetta dalla nebbia di un accompagnamento dal ritmo meccanico-melmoso (il rullante in reverse recording sembra avere sanguisughe attaccate alla pelle), e poi si sfilaccia e compenetra con l’armonia, fluttuando su un mare di trombe urlate, slabbrate, che negli ultimi 40” del pezzo andranno da sole a comporre un loro un delizioso, breve, pezzo di musica minimale.  

 

La melodia è molto ‘strumentabile’, quasi da sassofono, con glissati, scale ascendenti (e discendenti, per via del reverse) e lunghe note sostenute. Nato prima o dopo della melodia non lo so, il testo racconta di un momento d’indicibile emozione, di coppia, e “I didn’t mean to hurt you” ('Non volevo farti del male') quindi in qualche modo sofferenza eppure espiazione, con musica celestiale tutt’attorno.

 

Quello che si dice un epocale modo di chiudere la prima facciata di un LP. Musica da discesa dello Spirito Santo in terra, da brividi, da fridd’n’guoll.

 

 

-----------------------------------