Nel libro “biografico e autobiografico” di Bob Dylan (“Chronicles”) v'è una breve disquisizione sull’avvento delle “canzonette.” Dieci righe in un libro di 293 pagine, ma vale citarlo. Parla del ’60/’61. Traduco: “L’America stava cambiando di brutto. I sociologhi dicevano che la TV aveva intenzioni omicide e stava distruggendo la mente e l’immaginazione dei giovani - che la durata della loro attenzione veniva veniva abbassata. Forse era vero ma anche le canzoni da tre minuti ebbero lo stesso effetto.” E continuava ricordando come “sinfonie e opere” richiedessero ben altri sforzi mnemonici, ai quali però il pubblico del tempo sembrava adattarsi senza particolari problemi. Invece, osservava, “Con la canzone da tre minuti, l’ascoltatore non deve ricordare nulla [di quanto detto] venti minuti prima, nemmeno dieci. Niente da ricordare.” Un mutamento che a suo avviso stava avvenendo proprio allora.
Ogni semplificazione richiede sempre dell’imprecisione e di piegare un po’ i fatti alla bisogna. Così la sua tesi era che le canzoni folk fossero “comunque lunghe, magari non come un’opera o una sinfonia, ma pur sempre lunghe” anche se ce n’erano tante di brevi, sotto i tre minuti.
Oggi è di moda dar per scontato lo DDAI (in italiano. In inglese è ADHD o Attention Deficit Hyperactivity ) sia disturbo neuropsichico generato dal frequente uso di media digitali e dalla tendenza di utilizzarne più di uno contemporaneamente. E Microsoft pubblicizzò nel 2015 un suo articolo che includeva un memorabile meme: ovvero che il nostro “intervallo medio d’attenzione” pare si fosse ridotto da 12” (nel 2000) a 8” (nel 2013.) Non solo. Lo studio definiva i nostri 8” medi di attenzione media come “un secondo in meno” di attenzione “rispetto ad un pesce rosso.” Il factoid rimaneva impresso e non mi stupirei se avesse spinto madri e padri (in?)/coscienziosi a correre dallo psichiatra per farsi prescrivere lisdexamfetamina - pare buon rimedio ‘dai 6 anni d’età.’
In realtà pare che nessuno possa calcolare con certezza quei ‘nove secondi del pesce rosso’ e uno studio di un tale D.K Subramaniam (“Myth and Mystery of Shrinking Attention Span”) ha messo in dubbio che quei dati esistessero per davvero. In estrema sintesi, questo benedetto “intervallo d’attenzione” sembra verosimilmente legato all’attività svolta, cioè - in inglese - è “task-dependent.” Del tipo: se un clown sadico vi sta inseguendo con una mazza di baseball e lamette da barba conficcate nel legno, il vostro intervallo d’attenzione va avanti non per 8” ma per decine di minuti; se invece si tratta di ascoltare una Kardashian che parla senza mostrare il lato B, si approssima a zero.
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Articolo pubblicato per "Contrabanda" , rubrica mensile su BlowUp Magazine, #319