Luca D. Majer
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La strada: simile a quella intrapresa per la "Pizza Napoletana STG" (disciplinare pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 24 maggio 2004, che suddivide in "Pizza Napoletana Margherita", "Pizza Napoletana Margherita Extra" e altre categorie). L'obiettivo: rendere il caffè espresso italiano una Specialità Tipica Garantita (o STG), a norme CE. Per molti: motivo di gaudio. Domanda: quanto sarà utile questo riconoscimento internazionale?

L'espresso: "Una luce solida" (foto: Tuttoespresso)

 

Gli standard (e per certi versi lo schema europeo della STG è uno standard tecnico) non definiscono lo stato dell'arte: sono piuttosto il punto d'incontro tra tecnica ed economia, un altopiano normativo sul quale convergono interessi diversi. I nostri amici transalpini, ad esempio, sin dal 1824 avevano difeso le proprie denominazioni d'origine, ma non fu prima della fine del secolo XIX, con l'epidemia decimante di Phylloxera (e il parallelo aumento di millantatori) che i produttori divennero particolarmente sensibili all'applicazione severa di sanzioni al riguardo. A Chicago fu la guerra di Crimea, nella seconda metà dell'800, a spingere il commercio del grano verso lo standard tecnico, per evitare lotti avariati.

Sul tema parlo per esperienza: quando presiedetti -nel '90, per la prima delle due volte in cui lo feci- la EVMMA o European Vending Machine Manufacturers' Association, proposi l'adozione di uno standard tecnico per il software di comunicazione tra macchine vending e sistemi di pagamento. Si aprì il cielo! Lo standard venne approvato dopo furiose discussioni e grazie all'ironia della sorte: la mozione d'approvazione passò per errore, con maggioranza del 66%, nonostante lo Statuto richiedesse il 75% (nessun membro ebbe da ridire: forse troppo esausto dalle battaglie). Fu un quorum insufficiente, quindi, a permettere che l'MDB/ICP diventasse l'imprescindibile protocollo mondiale del vending.

In questo senso non mi stupisco che l'Associazioni Pizzaioli e Similari (APES) abbia presentato ricorso a Bruxelles contro il disciplinare della Pizza napoletana STG. Perché nel fissare gli standard -come nella vita in generale- la difficoltà è una sola: dove tiriamo la riga che separa il buono dal cattivo?

Cosa sia l'espresso "veramente italiano" è da anni un argomento ricorrente. Di fatto sino ad oggi questa magica bevanda è stata definita con norme dove l'approssimazione era proporzionale alla popolarità. Penso alle "4 M" (miscela, macinino, macchine e il -tanto virile quanto oscuro- "manico") o alle partenopee "3 C" ("ca... come coce"). Un torrefattore di premier crù, Gianni Frasi, ci ha saputo regalare una definizione più stravagante, notando come il caffè espresso sia l'unico caffè a presentare sulla sua superficie "un disco dorato (...) una luce solida (...) segno della Gerusalemme celeste".

Eppure qualsiasi caffè correttamente infuso in una macchina espresso costruita dopo la seconda guerra mondiale soddisfa le 4 M o le 3 C, anzi normalmente riesce persino sostenere il segno di una Gerusalemme celeste sulla sua sommità. Sono stati sensorialisti come Luigi Odello ad aggiungere un pizzico di qualità al discorso, optando di tirare una riga "edonica" sull'argomento, definendo l'espresso attraverso il piacere sensoriale che ci regala.
Distinzione non da poco.

Poiché gli standard sono espressione di gruppi d'interesse, quei requisiti amati da certuni possono risultare uggiosi ad altri. L'unica certezza per noi italiani è che oggi non possiamo chiedere ad un "vero" espresso italiano di partire da caffè verde italiano (solo Mussolini fu in grado -e lo fece- di pubblicizzare il caffè etiope come "Caffè dell'Impero"). Tutto il resto è ampiamente discutibile. Incluso definire come buon "espresso Italiano" uno preparato da un barista etiope ad Ushuaia, con chicchi Bourbon tostati in India ed una macchina del caffè made in Taiwan.

L'espresso italiano STG dovrà muoversi sulla falsariga delle certificazioni di processo, i cosiddetti Standard Oriented Coffees dei quali, in Italia, i caffè "equi e solidali" sono l'esempio più noto. Si è già detto che ci vorranno anni. Ma se il processo porterà a paletti assai larghi, gli intenditori del caffè saranno gli ultimi a sorprendersi. E a dolersene: già oggi sanno che non sono le norme a soddisfare i loro esigenti palati. Come cantava Bob Dylan quarant'anni fa, "non devi chiedere ad un metereologo da che parte tira il vento".

 

(Pubblicato su Comunicaffé, Milano - 14 luglio 2009; www.comunicaffe.com)