Luca D. Majer
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Musiche per momenti agnostici: una "breve playlist, come disintossicazione mentale e colluttorio aurale: musiche per consentire una sosta di qualche ora, in un’oasi fuori dal caravanserraglio globale" 

Marzo 2017

 

Post-scriptum (7 marzo 2020): In momenti incredibili come questi, vale la pena di rileggere di Bowie e del suo "mirabolante pezzo che parla di avvicinarsi al momento che dà senso a tutto il resto."

LM 

 

Playlist:

Carmelo Bene, Lectura Dantis, Bologna - 31 luglio 1981
Klaus Kinski, Jesus Christus Erlöser, Deutschlandhalle - Berlino, 20 novembre 1971
John Cage, Empty Words - Live al Teatro Lirico, Milano - 2 dicembre 1977
David Bowie, I Can’t Give Everything Away - 2016 

 

(...) Carmelo è l’unica vera incontrastata stella del rock italiano - lo disse già un articolo di Massimiano Bussi su BlowUp dieci anni fa. Io lo venero addirittura come uno dei più grandi musicisti italiani del XX secolo: una voce assurta in cielo, un controllo stupefacente, il matrimonio con il mezzo tecnico amplificato come amplificazione delle possibilità, improvvisazione costante. E non dicano che la voce da sola non basta a crear musica o (men-che-mai!) la Sua sia vecchio pattume: perché trovateme un altro così, oggi (...)

(...) Diossanto che rabbia e impeto e musicalità in quella voce che - non a caso - viene costantemente interrotta. Stella epìtome del narcisismo, Klaus Kinski qui s’adopera invece a far passare un messaggio di disperata redenzione, zen-isticamente aspettando che ogni conato di provocazione si sfiati e torni a casa sua, finendo non da stella, ma da performer d’avanguardia a recitare a quattro intimi con un fil di voce, esausto (...)

(...) in una lunga di queste lettere Cage ammette d’essersi accorto che i due mazzi di carte per “I-Ching computerizzato” che Ed Kobrin, un informatico dell’Università dell’Illinois, gli aveva fornito per ottenere risposte assolutamente random da “qualsiasi computer fosse disponibile”, in realtà avevano un baco e, insomma, la casualità tale non era - era come giocare con dei dadi truccati. Cage si dirà dapprima avvilito dalla scoperta poi - come tutti noi teso a trovare un bandolo nell’ironia delle cose - rincuorato che anche quello fosse, in un certo senso, un procedimento casuale e le ripetizioni indotte “godibili”. (...)

(...)

David Bowie, I Can’t Give Everything Away (2016)
 
I know something is very wrong”...
 
Il 2016 partì storto anche per via di Bowie. Aveva deciso di parlarci di morte certa (la sua) e, nel mezzo di levarsi da questo torno verso un altro ritorno, decise platealmente (dico io) di schiacciare il bottone... da qui i sincronismi tra video, musiche e poi - puuuf! - la scomparsa.
 
La prima volta che vidi il video di Blackstar due furono le immagini memorabili: quel viso (e quei bordi della bocca all’ingiù!) che solo dopo si capì: c’entrava la Morte. E il “black book” che un intensissimo Bowie mostrava come si fa con un estensorio: era un anti-Vangelo e un anti-libretto-Rosso - col pentagramma (e mica con la chiave di Sol: uno di quelli appuntiti). David sembrava serio come un Dick Cheney smagrito e il video era evidentemente un commento politico e religioso, speziato da simbologie più o meno svianti. A cominciare dalla “villa di Ormen” la cui spiegazione ha scatenato la fantasia dei goliardi (“l’Aston Villa di Ormen”), di economisti (Ormen Lange è il principale campo petrolifero off-shore norvegese), ermetici (“serpente”, Ormen in norvegese; con relativo mito del vichingo ucciso da un serpente ficcato in gola), astrologhi (costellazione del Serpens: Bowie, nella sua carta astrologica, aveva la sua stella più brillante, Unukalhai, in Giove), etc. Più corollari vari per collezionisti d’arte (i crani-gioiello da 50M£ del plagiatore Damien Hirst; quella donna-felino simile a Frida Kahlo), amanti di cartoni animati dark (gli occhi a bottone di “Coraline”), simbolisti (il sole, una star, nero), agiografi del Bowie (l’immancabile astronauta) e via così. Un’anteprima del disco che era vera omen, presagio malaugurante dai momenti prog alla Toni Pagliuca in Rohypnol... Poi quell’anno successe tutto-quello-che- successe e ci credo che ho visto la T-Shirt “Fuck 2016” in una libreria (The Strand) a New York, in dicembre.
 
Parlo però della canzone con la quale il disco termina. Dove onestamente Bowie ammette che “non posso dare via tutto” e in quella sua situazione la frase mi diede o fridd nguoll perché in realtà parlava di redenzione. Era una “prodigal son(g)”, come canta il testo, un regalo finale dopo la iattura sadica di Blackstar. E le parole - più di altre volte - svelavano quello che frullava nel cerebro bowiano. Era anche un’avvertenza falsa, perché se (com’è assai evidente) scelse il giorno della sua morte, in realtà diede davvero “via tutto”. Il testo era un’autocritica stalinista, ma anche preghiera e atto d’amore per i suoi fan - tipo: per favore, non chiedetemi tutto - cantati con una voce incredibile se si pensa alle condizioni (so da chi ci lavorò insieme nell’ultimo anno che si sapeva della sua salute: era stanchissimo). Avrebbe potuto stare in famiglia, aspettare di morire, fare altre cose ma... no.
 
Musicalmente, da vero DB, il pezzo parte con una citazione nota-per-nota (o è un sample?) da “Low”, più esattamente l’armonica iniziale di A New Career In A New Town: “l’inizio della fine” del disco che parte con un velato doppio senso, ad usum di chi diceva che Bowie credesse nella re-incarnazione. E poi? MAI in Bowie avevamo sentito sentito musica suonata con tale nerbo improvvisativo, chiaramente nord-americano. Neppure con Lester Bowie, che con DB era stato grande.
 
Una canzone semplice-delizia di cinque accordi su medium tempo - una strofa di 8 battute in cui quattro sviluppano una breve melodia che le successive quattro ripetono (stessa ritmica, note variate) e poi il ritornello di venti battute (o tutta la canzone è basata su una strofa unica d’inopinate 28 battute?), nelle quali DB si dedica a snocciolare il culmine: del titolo. Della canzone. Del disco e della sua vita. E’ quel “Non posso dare tutto” e quei due lunghissimi “away” che danno il senso finale dell’artista. Venti battute che sono il mantra di chi ha in testa di prepararsi - diciamo così - ad “una nuova carriera in una nuova città”.
 
In coda ai tre verse/refrain (da 28 battute) cantati ne seguono due d’improvvisazione: prima al sax, poi alla chitarra. Al sax c’è Donny McCaslin che mi suona un solo onirico; nel senso che è quello che Ziggy-sax si sarebbe potuto sognare di suonare: una qualità post-Breckeriana che trasforma anche il diteggiare del David Sanborn di Young Americans in figlio di una galassia minore. E dopo la terza strofa cantata e relativo refrain entra Ben Monder con una chitarra dal timbro che ricorda quello che Fripp (in St.Elmo’s Fire di Eno) aveva chiamato ‘Wimshurst’. Un richiamo che a Monder serve per eseguire svisate nervose, svolazzi sfolgoranti: entra, in anticipo, mentre la voce termina il refrain, coadiuvato da un’intelligente batteria che, in controtempo, confonde i limiti tra refrain e il “nuovo inizio” della strofa. C’è il blues (in fondo in fondo il pezzo è un blues in Fa) ma c’è pure un sentore be-bop che Fripp non ha mai posseduto, perché è nato in Inghilterra. Han detto che questo NON è un disco jazz, ma in quei due soli c’è tutta l’anima del jazz e che voglia di vivere travolgente che trasmettono!
 
I Can’t Give Everything Away sono 159 battute che saranno ancora in giro fra 50 anni e non solo perché sono quelle scelte come testamento definitivo, l’ultima parola di uno dei più grandi artisti a tutto tondo della musica c.d. popolare. Né perché DB in esse abbassa la guardia:
 
Seeing more and feeling less / Saying no but meaning yes
This is all I ever meant / That’s the message that I sent
 
[Vedendo di più e sentendo di meno / Dicendo di no ma intendendo che sì
Questo è tutto quello che ho voluto dire (oppure: che sono stato - n.d.tr.) / Questo è il messaggio che ho inviato]
 
Perché inserisco questo pezzo? e perché tra momenti di musica esclusivamente vocale? Beh, perché parla della ultimate mise-en-scène, dello spettacolo che neppure Carmelo, né Giovanni gabbia o Klaus-l’abusatore seppero mettere in scena, uno spettacolo dal finale vero, seppur sceneggiato da un qualcosa che non è mai stato umano in pieno: che se vestiva una giacca o un paio di jeans, quelli si trasformavano in qualcos’altro.
 
Se davvero ci sono dei lucertoloni alieni scesi sulla terra che ci comandano e porteranno il genere umano verso un altro stadio di sviluppo, come certi cospirazionisti vorrebbero, beh... Ziggy ne sarebbe il capo e ne rivedremo presto la coda. Se invece queste cose son roba da delirio (per me sì - ma figurarsi: c’è posto per tutto) David fu qualcuno che se interroghi l’I-Ching al riguardo ti risponderà sempre con il segno dell’uomo per eccellenza: “Il Creativo”. A questo punto chissene fotte di cosa voleva dire dicendo che Hitler era una rock star grande quasi come Jagger. O delle parole di Ashes to Ashes. O di quale fosse il segreto che (forse) non ci ha mai svelato... se tanto possiamo calarci in questo mirabolante pezzo che parla di avvicinarsi al momento che dà senso a tutto il resto.
 

 

Pubblicato su Blow Up di marzo 2017.