Luca D. Majer
Caffè  Musica  ed altro  
 


Musiche per momenti agnostici: una "breve playlist, come disintossicazione mentale e colluttorio aurale: musiche per consentire una sosta di qualche ora, in un’oasi fuori dal caravanserraglio globale" del marzo 2017.

With skull designs upon my shoes
David Bowie: I Can't Give Everything Away - 8 gennaio 2016
 
 
 

Bene (Nostra Signora) e Bowie (copertina "Lodger")

 
 
 
Definire la nostra società “società dell’informazione” e lasciare le chiavi della gestione delle informazioni a un gruppo di corporations americane non è la cosa più intelligente del mondo.
Luciano Floridi, Dipartimento dell'etica dell'informazione, Oxford University
 

Playlist:

Carmelo Bene, Lectura Dantis, Bologna - 31 luglio 1981
Klaus Kinski, Jesus Christus Erlöser [Gesù il salvatore], Deutschlandhalle - Berlino, 20 novembre 1971
John Cage, Empty Words - Live al Teatro Lirico, Milano - 2 dicembre 1977
David Bowie, I Can’t Give Everything Away - 2016 

Due concezioni di musiche estreme.
 
Jon Pieslak, andato a ricercare la musica che i ragazzotti americani si mettevano nei loro iPods prima d'uscire e andare a (farsi, anche) sparare, in Iraq, ha compilato i risultati nel libro "Sound-targets" (2009), in bilico tra ovvio (Eminem; gli Slayer ineggianti l'Angel of Death Josef Mengele; i Motorhead di Bomber; il Wagner valchirioso di Coppola) e l'imprevisto (Give Peace A Chance di Lennon?!!) Un soldato ha spiegato a Pieslak così l'importanza delle colonne sonore: eri fregato se la musica sull'HumVee per caso era quella sbagliata.
 
Al suo contrario, Reprieve, un'organizzazione inglese che "rende giustizia e salva vite, dai bracci della morte a Guantanamo" ha lanciato, nel 2007, un'iniziativa sostenuta tra gli altri, da Tom Morello dei Rage Against The Machine e dai Massive Attack. L'han chiamata "ZerodB", in onore del silenzio, per evitare d'ascoltare involontariamente Eminem e Dr. Dre per 20 giorni non stop; cioè contro l'uso della musica come forma di tortura. 
 
C'è poi una musica - più sottile - che porta pure lei all'omicidio o al suicidio. Sono le parole. Sono loro ad iniziare tutte le guerre. Letali escrescenze sonore che, per consuetudine, tendiamo ad associare ad un certo senso, anche se spesso ne intendono un'altro, magari anche opposto. 
 
(...)
 
[Prendete anche "il premio Nobel alla Pace" a Obama, primo presidente USA ad essere stato in guerra per tutti gli 8 anni del suo mandato. Che fortuna! che Bobby Zimmermann fosse in tournée e abbia mandato la smemorata Patti Smith a presenziare alla consegna!: che bello lo squarcio parallattico della Smith che dimentica le parole di Hard Rain's Gonna Fall - una canzone che quasi tutti fanno finta d'aver dimenticato. E che bello il messaggio, letto dall'ambasciatrice, come sempre scritto in quell'argotico multi-uso dal vate di Duluth.]

(...)

Carmelo Bene, "Lectura Dantis," Bologna - 31 luglio 1981
 
Bologna era ancora sconvolta dall'enorme bomba che alla stazione aveva falcidiato donne, homini e bambini. Bologna restava naïf, ancora non sapendo cosa fosse "la strategia della tensione" messa in piedi da chi diceva d'esser con noi ma noi morivamo.
 
Carmelo "da ferito a morte" (dai lilliputziani di certa stampa che per inedia o progetto volevano imbavagliarlo) dedicò quella serata "non ai morti, ma ai feriti dell'orrenda strage" offrendo una memorabile soluzione verbale all'enigma di quella strage. [Sulla quale, 36 anni dopo, esistono tante teorie ma poche certezze: tra cui uno dei condannati che aveva sempre professato innocenza, aggiungendo pure: "Se questo Paese non cerca la verità è un altro motivo per tacere".]
 
Bene si mise in cima alla Torre degli Asinelli un anno dopo, a scandire Dante in una dimensione temporale da metronomo impazzito, colloso, e una conoscenza del testo ante '500 che gli permetteva di fottere molta della metrica dantesca stranota, ferendo a morte invece che homini gli endecasillabi e le sillabe con acciaccature, cambi di tono, accartocciamenti, allungamenti minimali ("fiinnnn nel Marocco"; "unna monnntagnna bruuna").
 
E tramite quella morte generare un "nuovo mondo coraggioso" di libertà quale quello che ci sarebbe piaciuto vedere nascere da quelle morti, da quell'Olocausto agostano che avrebbe potuto, nel dolore, far sorgere utilità da macerie-fumanti-e-urla e in sua vece vide asservimento e colpevoli contumaci.
 
In queste strofe il potere viene restituito al suono che - come sempre in Carmelo - era l'unico, indiscusso, non-semantico vincitore a tutto campo dei suoi lavori musicali (detti teatrali: puoi ascoltarli senza guardarli, ma non puoi guardarli senza ascoltarli). Un Bene oltre ogni potere temporale.
 
Potete immaginarvi uzbeki e uscire dalla dimensione grammaticale, sintattica, storica - insomma testuale - e farvi trasportare dalla sola bellezza del suono, le sincopi, le gutturali, un helter skelter dai salti di registro che inghirlandano le sillabe e l'assordante clamore di trombe distorte e flauti, che avviluppano di violenza inaudita l'inizio d'ogni Canto.

Oppure ammirate l'astrazione intellettuale costante, certosina - da mitico artigiano del suono dell'anima - tesa a suddividere ogni spazio in maniere tanto originali. Come Bene gode fare il ralenti delle parole - a dar più sensi - che scompongono frasi celeberrime ("Amor... ch'a nullo... amato... amar perdona..."), scandendole o addentrandosi in micro-labirinti sonori ("assai t'en priego e ripriego che 'l priego vaglia mille") o togliendo punteggiature e affidarsi aD Io.
 
E crescendo urlati o sinusoidali a far capire perché oggi non si fa più teatro, o quasi, che pure la ricerca è sponsorizzata dalla scarpetta di moda. E quanto - non già europea! bensì - mediterranea suoni questa voluttuosità nel rivoltarsi nei fonemi, come appena svegli una fredda mattina invernale amiamo rigirarci in una piumosa trapunta calda.
 
Erano Canti, giustamente: perché si parla di voci, anime e Note delle Sfere ("Si che m'inebriava il dolce canto ciò ch'io vedeva mi sembiava un riso... (pausa) ... dell'Universo"). I Canti vanno cantati e Carmelo questo fa: sottilmente, da lacaniano conscio della devastante potenza della parola; rivoluzionaria, ovvero conformista a seconda del gusto. Sfavillando con intelligenza e ironia da musico eccelso qual'era, letto dal testo. E' Musica. Che potrebbe venir ascoltata a volume bassissimo, ma al massimo ascolti tutti gli armonici di quella voce insalivata o secca. E i silenzi, che come Miles ha sempre detto, son ben più importanti.

Carmelo è l'unica vera incontrastata stella del rock italiano - lo disse un articolo di BlowUp già dieci anni fa. Io lo venero addirittura come uno dei più grandi musicisti italiani del XX secolo: una voce assurta in cielo, un controllo tecnico stupefacente, il matrimonio con il mezzo tecnico amplificato come amplificazione delle possibilità, improvvisazione costante.

E non dicano che la voce da sola non basta a crear musica o (men-che-mai!) la Sua sia vecchio pattume: perché trovateme un altro così, oggi. Eppure sono andato in Salento la scorsa estate, proprio vicino a Cesarea, e tra i giovani nessuno sapeva chi era, a chiederglielo a bruciapelo... e Signore, perché?

Spettacolo umano, Bene ti teneva sempre vivo e riportava a pensare come la voce sia il primo e ultimo instrumento e la cultura sua stampella. Appare chiaro nel film "Nostra Signora de' Turchi" [la cui immagine di uno dei Carmeli che lo abitano, schiacciato al suolo, Bowie ben adattò in "Lodger": la tesi - mia - gode delle coincidenze, inclusa la mano bendata] pure nei suoi momenti Franco-&-Ciccio e psichedelici deliri.
 
 
Klaus Kinski, "Jesus Christus Erlöser" [Gesù il Salvatore], Deutschlandhalle - Berlino, 20 novembre 1971
 
Werner Herzog in "My Best Fiend" racconta di quando - dopo aver dato in escandescenze - Klaus Kinski venne rinchiuso in un bagno di casa Herzog (dove KK aveva in affitto una stanza) e in una notte di "isolamento" ridusse in briciole minutissime porcellana del cesso e tutto.
 
Un pazzo, si è detto. Eppure c'è del genio in quei cappotti di vinile arancione, la Villa antro-dell'orco sull'Appia Antica, le infinite donne, capolavori e filmacci di serie B inanellati su un filo di spaghetto western. ?
 
Questo spettacolo del '71 (su You Tube in innumerevoli salse anche sottotitolate) è un tassello immancabile, anche se è stato definito "eines grandiosen Scheiterns", un grandioso fallimento. Balle. Fu allora che decise per una volta di cessar di fare il contoterzista, mettendo financo velleitariamente anima e spirito in un testo preparato al microscopio, salvo accettare di cadere nella trappola degli agents provocateurs che pullulavano nella sala, pronti lì (come sarebbe stato 6 anni dopo, al Lirico di Milano - vedi sotto) a buttare tutto in vacca, perché quella è buona regola della disinformazione.
 
Il Gesù del titolo non è il Salvatore sfilacciato dalle diatribe sulle eresie ma quello rivoluzionario e KK mischia la merda contro la quale si scagliava il Redentore a quella allora più recente del Vietnam. Fulminato dalla bravura di quest'uomo dalla faccia patibolare, gli zigomi sporgenti e una mascella volitiva, rimango ossessionato dal suo tedesco millimetrico usato a difesa dei reietti della società, compatrioti di una terra mentale dove la "buona società" non ha giurisdizione e segui quanto il buon senso ti dice.
 
Cita il Discorso della montagna, vicino a PP Pasolini nel come aveva reso quell'incommensurabile prosa: da cliché religioso-domenicale a pugno chiuso sferrato nello stomaco dei mal-facenti. Diossanto che rabbia e impeto e musicalità in quella voce che - non a caso - viene costantemente interrotta.
 
Stella epitome del narcisismo, KK qui s'adopera invece a far passare un messaggio di disperata redenzione, zen-isticamente aspettando che ogni conato di provocazione si sfiati e torni a casetta sua, per finire lui a recitare a quattro intimi a fil di voce, esausto. ?
 
Un'apologia da mondo imperfetto, curiosa per uno che non girovagava nei quartieri dei reietti ma in via Veneto. Eppur sinceramente qui in difesa di apolidi, rivoluzionari, mamme (di bambini all'odor di napalm), senza tetto, zingari, puttane, orfani ai quali lui, in un certo senso, apparterrà.
 
Certamente vera è la sua rabbia, intatta rispetto all'aneddoto delle ceramiche rese polvere di cui sopra: il capello biondo sciolto, bellissimo membro (di una razza spacciata come superiore ma che aveva pure Kant, Hegel, Beethoven e qualche altro genio nella sua faretra), che piacere mi dà ascoltarlo decifrare l'assurdità del mondo con una rabbia che sarebbe stata di Kurt Cobain ma inequivocabilmente è, dapprima - in questa mitica performance senza repliche - di Klaus il Grande, che in quella serata volle mondarsi dai suoi peccati.
[L'ultimo, in ordine di apparizione, la violenza sulla figlia Pola tra i 5 e 19 anni, ci rende totalmente attoniti verso l'uomo Kinski e pietosi verso Pola e Nastassja, che soffrirono in diretta il lato oscuro della follìa di KK (al punto di dire, quest'ultima: sono lieta che sia morto.)]
 
 
John Cage, "Empty Words" - Teatro Lirico, Milano - 2 dicembre 1977

(...)

In una lunga di queste lettere Cage ammette d’essersi accorto che i due mazzi di carte per “I-Ching computerizzato” che Ed Kobrin, un informatico dell’Università dell’Illinois, gli aveva fornito per ottenere risposte assolutamente random da “qualsiasi computer fosse disponibile”, in realtà avevano un baco e, insomma, la casualità tale non era - era come giocare con dei dadi truccati. Cage si dirà dapprima avvilito dalla scoperta poi - come tutti noi teso a trovare un bandolo nell’ironia delle cose - rincuorato che anche quello fosse, in un certo senso, un procedimento casuale e le ripetizioni indotte “godibili”. (...)

(...)

Il risultato di quel concerto fu di far dubitare se veramente la democrazia sia una cosa che faccia bene al demòs, al popolo. Fu l'obiettivo dei provocatori e venne centrato in pieno. Oggi, a quasi 40 anni dall'evento, potrei dire che la libertà che non sapevamo di avere venne restituita mal negoziandola: la demmo via e in cambio - come gli indiani a Manhattan - ricevemmo qualche specchietto e un Walkman, che poi ci cambiarono con un iPod, pagamento a 24 mesi. 
 
La voce di Cage si esprisse in blob incomprensibili, indisponibile ad un consumo immediato. A risentir invece la registrazione della Cramps immediati sono gli insulti, le crisi di auto-coscienza ("Ma dicci almeno che siamo degli stronzi"), le cantilene da stadio dei pochi agents provocateurs e dei tanti mufloni che le imitavano. Commenti cretini che dimostravano come la parola sia un bene da adoperare con parsimonia.
 
Una performance che aiutò a scopettare via il Movimento anche se fu un tempo, negli USA e altrove, dove la diseguaglianza economica era ai minimi storici. In un certo senso fu là che finì il '68 e iniziò la Me Generation: tutti ci sentimmo inequivocabilmente attratti a salire sul palco e da lì sopra non sapemmo più bene cosa fare.
 
Fu papà Berlusca, che proprio quel giorno aveva ottenuto un importante aumento di capitale sottoscritto dalle banche, a toglierci il peso di avere un progetto comune e fare. Nessuno sapeva - allora - che (al ritmo di Cicale di Heather Parisi e giù di lì) ci stavano sfilando la Lira, le svalutazioni competitive, l'autonomia monetaria e, gran finale!, il posto fisso in fabbrica e - voilà! - pure la fabbrica, in cambio del precariato "vivi e lascia morire" di oggi.
 
Relegandoci in un ologramma del quale oggi stentiamo a comprendere i contorni. Grazie all'agnotologia.

 
David Bowie, I Can’t Give Everything Away (2016)
 
I know something is very wrong”...
(I Can’t Give Everything Away)
 
Il 2016 partì storto anche per via di Bowie. Aveva deciso di parlarci di morte certa (la sua) e, nel mezzo di levarsi da questo torno verso un altro ritorno, decise platealmente (dico io) di schiacciare il bottone... da qui i sincronismi tra video, musiche e poi - puuuf! - la scomparsa.
 
La prima volta che vidi il video di Blackstar due furono le immagini memorabili: quel viso (e quei bordi della bocca all’ingiù!) che solo dopo si capì: c’entrava la Morte. E il “black book” che un intensissimo Bowie mostrava come si fa con un estensorio: era un anti-Vangelo e un anti-libretto-Rosso - col pentagramma (e mica con la chiave di Sol: quell'altro.)

David sembrava serio come un Dick Cheney smagrito e il video era evidentemente un commento politico e religioso, speziato da simbologie più o meno svianti. A cominciare dalla “villa di Ormen” la cui spiegazione ha scatenato la fantasia dei goliardi (“l’Aston Villa di Ormen”), di economisti (Ormen Lange è il principale campo petrolifero off-shore norvegese), ermetici (“serpente”, Ormen in norvegese; con relativo mito del vichingo ucciso da un serpente ficcato in gola), astrologhi (costellazione del Serpens: Bowie, nella sua carta astrologica, aveva la sua stella più brillante, Unukalhai, in Giove), etc.
 
Più corollari vari per collezionisti d’arte (i crani-gioiello da 50M£ del plagiatore Damien Hirst; quella donna-felino simile a Frida Kahlo), amanti di cartoni animati dark (gli occhi a bottone di “Coraline”), simbolisti (il sole, una star, nero), agiografi del Bowie (l’immancabile astronauta) e via così.
 
Un’anteprima del disco che era un vero omen, presagio malaugurante dai momenti prog alla Toni Pagliuca in Rohypnol... Poi quell’anno successe tutto-quello-che- successe e ci credo se poi, in dicembre, ho visto la T-Shirt “Fuck 2016” in una libreria (The Strand) a New York.
 
Parlo però della canzone con la quale il disco termina. Dove onestamente Bowie ammette che “non posso dare via tutto” e in quella sua situazione la frase mi diede o fridd nguoll perché in realtà parlava di redenzione. Era una “prodigal son(g)”, come canta il testo, un regalo finale dopo la iattura sadica di Blackstar. E le parole - più di altre volte - svelavano quello che frullava nel cerebro bowiano.
 
Era anche un’avvertenza falsa, perché se (com’è assai evidente) scelse il giorno della sua morte, in un senso diede davvero “via tutto”. Il testo era un’autocritica stalinista, ma anche preghiera e atto d’amore per i suoi fan - tipo: per favore, non chiedetemi tutto - cantati con una voce incredibile se si pensa alle condizioni (so da chi ci lavorò insieme nell’ultimo anno che si sapeva della sua salute: era stanchissimo). Avrebbe potuto stare in famiglia, aspettare di morire, fare altre cose ma... no.
 
Musicalmente, da vero DB, il pezzo parte con una citazione nota-per-nota (o è un sample?) da “Low”, più esattamente l’armonica iniziale di A New Career In A New Town: “l’inizio della fine” del disco che parte con un velato doppio senso, ad usum di chi diceva che Bowie credesse nella re-incarnazione. E poi? MAI in Bowie avevamo sentito sentito musica suonata con tale nerbo improvvisativo, chiaramente nord-americano. Neppure con Lester Bowie, che con DB era stato grande.
 
Una canzone semplice-delizia di cinque accordi su medium tempo - una strofa di 8 battute in cui quattro sviluppano una breve melodia che le successive quattro ripetono (stessa ritmica, note variate) e poi il ritornello di venti battute (o tutta la canzone è basata su una strofa unica d’inopinate 28 battute?), nelle quali DB si dedica a snocciolare il culmine: del titolo. Della canzone. Del disco e della sua vita. E’ quel “Non posso dare tutto” e quei due lunghissimi “away” che danno il senso finale dell’artista. Venti battute che sono il mantra di chi ha in testa di prepararsi - diciamo così - ad “una nuova carriera in una nuova città”.
 
In coda ai tre verse/refrain (da 28 battute) cantati ne seguono due d’improvvisazione: prima al sax, poi alla chitarra. Al sax c’è Donny McCaslin che mi suona un solo onirico; nel senso che è quello che Ziggy-sax si sarebbe potuto sognare di suonare: una qualità post-Breckeriana che trasforma anche il diteggiare del David Sanborn di Young Americans in figlio di una galassia minore. E dopo la terza strofa cantata e relativo refrain entra Ben Monder con una chitarra dal timbro che ricorda quello che Fripp (in St.Elmo’s Fire di Eno) aveva chiamato ‘Wimshurst’. Un richiamo che a Monder serve per eseguire svisate nervose, svolazzi sfolgoranti: entra, in anticipo, mentre la voce termina il refrain, coadiuvato da un’intelligente batteria che, in controtempo, confonde i limiti tra refrain e il “nuovo inizio” della strofa. C’è il blues (in fondo in fondo il pezzo è un blues in Fa) ma c’è pure un sentore be-bop che Fripp non ha mai posseduto, perché è nato in Inghilterra. Han detto che questo NON è un disco jazz, ma in quei due soli c’è tutta l’anima del jazz e che voglia di vivere travolgente che trasmettono!
 
I Can’t Give Everything Away sono 159 battute che saranno ancora in giro fra 50 anni e non solo perché sono quelle scelte come testamento definitivo, l’ultima parola di uno dei più grandi artisti a tutto tondo della musica c.d. popolare. Né perché DB in esse abbassa la guardia:
 
Seeing more and feeling less / Saying no but meaning yes
This is all I ever meant / That’s the message that I sent
 
[Vedendo di più e sentendo di meno / Dicendo di no ma intendendo che sì
Questo è tutto quello che ho voluto dire (oppure: che sono stato - n.d.tr.) / Questo è il messaggio che ho inviato]
 
Perché inserisco questo pezzo? e perché tra momenti di musica esclusivamente vocale? Beh, perché parla della ultimate mise-en-scène, dello spettacolo che neppure Carmelo, né Giovanni gabbia o Klaus-l’abusatore seppero mettere in scena, uno spettacolo dal finale vero, seppur sceneggiato da un qualcosa che non è mai stato umano in pieno: che se vestiva una giacca o un paio di jeans, quelli si trasformavano in qualcos’altro.
 
Se davvero ci sono dei lucertoloni alieni scesi sulla terra che ci comandano e porteranno il genere umano verso un altro stadio di sviluppo, come certi cospirazionisti vorrebbero, beh... Ziggy ne sarebbe il capo e ne rivedremo presto la coda. Se invece queste cose son roba da delirio (per me sì - ma figurarsi: c’è posto per tutto) David fu qualcuno che se interroghi l’I-Ching al riguardo ti risponderà sempre con il segno dell’uomo per eccellenza: “Il Creativo”. A questo punto chissene fotte di cosa intendeva dicendo che Hitler era una rock star grande quasi come Jagger. O delle parole di Ashes to Ashes. O di quale fosse il segreto che (forse) non ci ha mai svelato... se tanto possiamo calarci in questo mirabolante pezzo che parla di avvicinarsi al momento che dà senso a tutto il resto.
 

 

Pubblicato su Blow Up di marzo 2017.