Luca D. Majer
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Un articolo sulla concentrazione della proprietà dei diritti musicali di molti cantanti rock storici.

 

 
 
 
 
 

Jon Bon Jovi

 

 

CONTRABANDA

Musica? Fast forward !

 

 

Zimmy, patriarca dei Dylaniti (e Grande Bacucco per molti Altri), ha venduto alla United Artists 600 canzoni per 227M£.

 

È chiaro: i diritti intellettuali di Visions of Johanna e Talking WWIII Blues (“in my Cadillac, good car to drive, after a war”) non hanno prezzo, ma… parliamone. Innanzitutto: questo è il momento per comprare “cataloghi di canzoni” (specie se hai un miliardo in contanti), vengon giù come mosche: dai pezzi dei Fleetwood Mac a Fever, da What A Wonderful World a quelli di Lil Wayne. Una ragione è che i lockdowns hanno impattato sui risparmi dei musicisti, con la scomparsa dei concerti.

 

Quando "The Guardian" dice che “gli streaming services legali (…) continuano a essere la salvezza degli artisti,” dice un mezza verità. Perché (sino ad oggi) mostrano una scarsa considerazione verso l’artista che prende -se tutto va bene!- l’1% del fatturato (Spotify -dato 2018- paga tra $0.006 e $0.0084 per pezzo.)

 

Ed O’ Brien dei Radiohead (il cui compare York aveva definito nel ’13 lo streaming “l’ultima disperata scorreggia di un corpo morente”) è andato con altri colleghi, tra cui l’inglese Nadine Shah (cantante con oltre 100.000 ascolti/mese su Spotify) a testimoniare la situazione davanti ad un comitato parlamentare. Nadine e gli altri hanno spiegato ai politici quanto il sistema di royalties sia ingiusto e privilegi i grossi nomi (sistema “winner takes it all.”) Poi Nadine è tornata a casa…. dei genitori, non potendo più permettersi l’affitto: “non una bella figura per una pop star” ha scritto.

 

Altra ragione è che, nelle casse del settore, non sono mai entrati così tanti soldi: perché se festeggi… lo fai con della musica; e se sei triste… ti consoli con la musica; e poi, comunque ti penda, la musica costa spicci. Sia nel digitale (a giugno 2020, Spotify ha registrato una crescita del 29%, anno su anno), che globalmente (+ 44% da 2013 a 2019) grazie al crescente parco attivo di smart-phones (un miliardo venduti solo nel 2020) e alla globalizzazione, fatturato e utili del settore sono saliti. Il 2021 sarà ancora meglio.

 

Un’altra ragione è che le fees non sono dovute a molti degli artisti con contratti  “pre-digital”. Che potrebbe spiegare il recente tweet di David Crosby in cui si diceva “senza risparmi e senza pensione”, “perché lo streaming mi ha portato via i soldi dei dischi e ho figli e un mutuo da pagare” - vabbé, insomma è in vendita.

 

Neil Young non lo è più (per ora): ha venduto giusto metà del suo tesoro di proprietà intellettuali il giorno della Befana 2021. A chi? a Merck Mercuriadis (56), ex-manager di Elton John e Beyoncé, ed ora a capo della Hipgnosis Songs Fund, il più grande “aggregatore puro di diritti d’autore musicali.” Una società che (al 30/9/20) aveva investito 1,18 Mld£ per 57.836 canzoni (prezzo medio: 22.000£ ca. a canzone) di cui il 5% erano stati dei “numeri 1” e il 18% delle “Top 10.” Infine, 1/3 delle canzoni è stato scritto più di dieci anni fa (e il 59% tra 3 e 10 anni.) 

 

Il prezzo per canzone viene stabilito in un "moltiplicatore" degli “anni di utili.” Cosiddetto EBITDA che per Mercuriadis e la Hipgnosis è stato in media pari a 14,76 (con alcuni hits pagati anche 22 anni di utili.) Dall’iniziale quotazione in Borsa (2018) il titolo è salito del 21%.

 

Il caso Hipgnosis ha dimostrato per ora alcune cose:

1) i ‘vecchi bacucchi’ vendono. (I Beatles sono il 2° artista con più dischi venduti nel XXI sec.; il 1°? Eminem.)

2) Tutti vendono di più da quando c’è lo streaming: il “fatturato” annuale di Livin’ On A Prayer (Bon Jovi, 1986) è aumentato del 53% in 7 anni.

3) L’economia finanziaria (con i suoi fondi-senza-fondo) e la tendenza alla “razionalizzazione” (= monopolio) settoriale, ben vedono i Mercuriadis di turno, gente che ricorre al credito per comprarsi una posizione di supremazia ipotecando 22 anni di utili.

 

4) I dati di Hipgnosis indicano un incasso medio di 1382£/anno per ogni canzone di un autore di successo (= ca. 230.000 streamings/anno medi per canzone.) A New York, dove per essere “middle class” devi guadagnare almeno 250.000$/anno, ovvero almeno 40M di streamings/anno, è chiaro che le piattaforme consentono a pochi artisti di migliorare (o mantenere) la propria classe sociale.

 

6) In più, le piattaforme non sono grandi pagatori: per problemi ‘tecnici’, hanno accantonate fees per 2,5Mld.$ in attesa di un legittimo artista a cui darlo. E se io Luca volessi fare ‘auditare' il mio estratto conto (se ne ho diritto a contratto) sono decine di migliaia di palanche. E centinaia di migliaia di palanche per una causa. 

 

Per queste ragioni s/vendere ad una azienda come Hipgnosis, BMG Rights Management o Kobalt  (o ad una delle tre majors, come Zimmy) diventa un atto dovuto, più che una scelta.

 

Oppure si affida parte degli utili ad un’altra piattaforma, come paperchain.io, che promette di connetterti (per una fee) ai tuoi incassi “live”, se vuoi pure anticipandoteli istantaneamente all’1% di tasso mensile. Insomma, per Mercuriadis e i piccoli artisti il motto è simile: “Io sono, solo se ho credito.”

 

Per il settore globalmente, invece, tempo di sismiche correnti di cambiamento; vedremo un'altra volta.

 

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Pubblicato sul numero di febbraio 2021 di BlowUp magazine,