CONTRABANDA
10 BTExM (Best Tunes Ever x Me)
#6 - (Manqabat) Sultanul Arafin Haq Bahu (esecutori vari)
Inizio a vedere tutto collegato: dalla reincarnazione a concettuali strumenti adatti a leggere la contorta realtà odierna, come gli ‘assemblages’ di Deleuze e Guattari [entità eterogenee all’apparenza scollegate tra loro che generano risultanze pratiche], o le “reti-Attore” di Bruno Latour (cfr. Martin Müller: Assemblages and Actor-networks: Rethinking Socio-material Power, Politics and Space).
Nel mio assai modesto ‘assemblaggio’ odierno rientra un oscuro enfant prodige nato un certo anno del XVII sec. a Qalai Shorkot, sulle rive del fiume Chenab, 300 km. da Lahore, Pakistan: il futuro ‘sultano’ Bahu. E, appunto, la reincarnazione. E il qawaali, che è una miscela di musica classica e popolare d’estrazione indiana, persiana, araba e turca. E un altro sant’uomo, che avrebbe inventato tablas e qawaali, Amir Khusrau Dehlavi (scritto anche Khusro) dell’ordine Sufi dei Chishti. E ci entra la teoria degli stati alterati di percezione sensoriale, per via di quel processo di estraniamento che spinge i Sufi a suonare per ore (in maomettana esortazione, o dhikr) piuttosto d’entrare nell’estasi (fana) che ti assorbe nello spazio spirituale: raggiunta anche solo un attimo, pare valga una vita.
La vita del (“santo perfetto” dei Sufi) Hazrat Sultanul Arafin Haq Bahu Rematullah è avvolta nella leggenda. Prim’ancora che nascesse, dicono che la madre si fosse già resa conto che il figlio sarebbe divenuto un santo. Vedendolo gl’infedeli induisti pare si mettessero a recitare l’inizio del credo mussulmano, la Kalima Tayyiba (“Laa Ilaha Illallah Muhammad ur-Rasulullah.”) Ma nei 124 libri che Bahu scrisse insistette su due principi, prim’ancora della fede nella shariah: oscurità e desistenza. E diceva: “permettimi d’esser chiaro: la verità conduce alla redenzione, la falsità alla distruzione,” predicando un Sufismo che premiava la potenza dell’immateriale, di quel pensiero che lo faceva cadere in estasi.
Del qawaali posso dire che è il mio stile di musica preferito. Il nome significa “suono” (e “affermazione”, intendendo “di Maometto”) e le risonanze sono ataviche: si perde nella notte dei tempi insieme alla storia dei Sufi, che solo recentemente s’intreccia ai mussulmani, forse (è una mia teoria) perché la purezza Sufi dello Spirito i cristiani, da Costantino in poi, se l’erano già giocata. [Si sa però che S. Francesco fu in Egitto e c’è chi lo vuole un Sufi.] I Sufi sono già da soli un apparentemente estemporaneo assemblage: una setta che non è setta; senza una città santa; senza organizzazione temporale; senza dogmi religiosi; senza una storia. E magari, come nel caso di Bahu, senza fissa dimora per tutta la vita.
Nella loro meschina crociata secolare contro la religiosità, Bollywood e Mumbai hanno imbastardito e trasformato il qawaali in fenomeno da X Factor locali. Hollywood (Holy-Wood = legno santo: la bacchetta magica alla conquista del nostro immaginario) l’aveva già fatto con Oliver Stone, usando il più famoso qawaal della fine XX sec. (Nusrat Fateh Ali Khan) per scene di decapitazioni nella prigione di “Natural Born Killers”. E qui ci rientra la reincarnazione, perché invece di teste mozzate, io, in questa musica estatica, mi ci perdo. Avverto un contatto con la natura più profonda del mio essere. Forse grazie all’improvvisazione della melodia, che ghirigora l’aria con quei quarti di tono che avverti se fai per staccarti dal Sud del Sud italiano e poi navighi il Mare Nostrum verso il Maghreb o l’Oriente, in una metamorfosi aurale che da dodici note te ne ritrovi ventidue.
Ma i qawaal non sono monumenti viventi di tecnica vocale, bensì -nei migliori esempi- grandissimi improvvisatori popolari che esprimono in quindici o venti minuti o un’ora il loro rapporto con l’essenza dell’Universo. Più che tecnica, quest’assemblage magico produce alterati stati di percezione grazie ai comprimari che accompagnano il cantante in ripetizioni ipnotiche. E spunta pure l’harmonium, relitto di colonizzazione occidentale a usare le sole note “ben temperate.” Il tutto con una semplicità, che sarebbe piaciuta a Pasolini: popolo eletto in cerca di trascendenza, attraverso la reiterazione.
Questo manqabat - lode di un santo: in questo caso di Bahu; anche: Bahoo - è un classico come Autumn Leaves lo è per i jazzisti: lo trovate cantato da tanti artisti. Ascoltatevi Badar Miandad Khan, oppure il suo parente Nusrat Fateh (un po’ amfetaminico nel cantar di Bahu: meglio il qawaal-punk di Azir Mian, allora.) E Arf Feroz, o Mohammed Ikbal Bahoo, o Irfan Hadrian, o Faiuddin Soharwardi. Della versione che prediligo ne ho già scritto nel 2014: è lenta e di Abida Parveen, che l’ha chiamata Ho Ji Maula ma che trovate su UTube come “Mein-Sufi-Hoon-Abida-Parveen-Ustaad-Raees-Khan” [da non confondere con la -volgarizzata- versione fatta per i Coke Studios; che termina a 10’ -cioè quando dovrebbe… iniziare- con un manqabat tradizionale in esortazione di Ali: ma quei pochi secondi finali sono da brividi.] Il testo, allegoria Sufi di sacro e di profano, racconta che “il mio amore brilla come una stella. Giorno o notte, la sua lucentezza pervade tutto.(…) Ogni poro del mio corpo ha mille lingue che professano il loro amore parlando la lingua del Muto.” E infatti non c’è bisogno delle parole - basta la melodia per dare una gioia sconosciuta. Soprattutto in questi tempi.