... e quando suonò While My Guitar Gently Weeps
All'induzione di George Harrison nella R'n'R Hall Of Fame, nel 2004, una band bianca suonò quella famosa, anzi mitica canzone del Doppio Bianco col solo di Eric Clapton. Quella sera, alla fine, spuntò un nero, Prince, e fece qualcosa di strabiliante.
''While My Guitar Gently Weeps" non è solo una delle più belle canzoni scritte da George Harrison con i Beatles. È anche una delle più belle canzoni del “White Album”.
Guitar World, 2016
'While My Guitar Gently Weeps per un chitarrista rock è canzone capostipite, un riferimento - e una pacchia da suonare, blues-improvvisandoci sopra. La canzone ha due tonalità, La minore e poi, nel ritornello, La maggiore - che in musica poi sarebbe il c.d. “scambio modale”.
Tra le due è la strofa, in particolare, a permettere improvvisazioni blues fantasticamente bene, non so perché… forse grazie anche alle note alte del pedale di piano e la linea di basso discendente con sprizzi cromatici che completano la serie di malinconici accordi (in tonalità minore) che convergono nel (breve) momento di gioia “in maggiore” del ritornello, salvo poi tornare al sofferente clima blues che è la nota tipica della canzone.
Clapton, con una Les Paul del ’57, lasciò ai posteri in quella session coi Beatles un esempio di solo rock mitico, e questo solo perché George aveva provato a farselo fai-da-te, ma nessuno era contento del risultato. Così tirò dentro mano-lenta Clapton che, era il ’68, lasciò un pezzo da scuola.
Quel solo venne pedissequamente riprodotto, con gran piacere nostro, da Marc Mann durante la versione suonata in omaggio alla 2004 R’n’R Hall Of Fame Induction di Harrison da una band con Dhani Harrison, il figlio di George, Jim Capaldi e Stevie Winwood (ex-Traffic), oltre a Billy Preston, Tom Petty, Steve Ferrone e Scott Thurston. E Prince.
Il Mann ri-suona Clapton con voluttà: tirando queste corde lentamente e piagnucolando la strada fino al ritornello, mentre la band procede dritta col gusto che ha deciso di dare al pezzo: una beat seduto sulla canzone, col carrozzone di troppi musicisti a suonare troppe chitarre [A dodici corde (acustica, il Petty) e a 6 corde (acustica, Harrison, ed elettrica, Mann)] che tolgono spigoli alla musica, insieme a organo e piano.
In questo scenario da rock bianco fa capolino, alla fine della citazione parola-x-parola di Clapton, Prince: ha una chitarra nervosa, angolosa, sprezzante, blues fino al midollo. Eccolo lì: ad impugnare la chitarra come un’alabarda e sentori di Killin’ Floor e sant’altro pure: un Wes Montgomery ad ottave e svisate feroci e velocissime alla Steve Vai, e corde tirate all’orlo della rottura e alla fine pure gli accordoni alla LedZep in staccato, come per dire alla band “dài, smettete ‘sta zuppa sonora”.
Finisce che Prince urla un riffettino sul fondo della tastiera, si strappa la chitarra di dosso buttandola nel pubblico, e via! si gira senza dir né ciao né crepa, e dopo aver strizzato l’occhio al roadie Takumi Suetsugu (che s’acchiappa la chitarra, malconcia, con l’ordine di darla ad Oprah Winfrey, presente in platea), ignorato pubblico e band alla grande, se ne esce. Fuck you very much.
Dicono che, pure lui ospite “indotto alla Hall Of Fame” quella sera, fosse arrivato a quell’assolo perché il produttore della trasmissione, Joel Gallen, lo voleva assolutamente sul palco. La vedova Harrison prima titubò, interpretando il volere del marito come d’invitare solo musicisti che questi conosceva personalmente. Poi cambiò idea. E Prince si disse poi lieto di aver partecipato a fianco di uno dei suoi artisti preferiti farfugliando: “è stato un onore di suonare con Tom Petty: Free Fallin’ è una delle mie canzoni preferite.”
In realtà, per quanto se ne sa, Prince non si fece vedere né suonò alle prove e finì sul palco senza mai aver mai fatto un sound-check con gli altri. Così quando iniziò la sua cosa, nessuno sul palco aveva idea.
Ma ecco: dopo che Marc Mann ti sciorina verbatim la nostalgia di Clapton fine ‘60, che cambio! Prince in un solo di quasi tre minuti mischia varie tecniche, t’aggiunge una rabbia che prima non si aggirava dalle parti e vi fionda dentro umori e gesti hendrixiani (insieme all’eccitazione psicoattivata degli anni Novanta) e una teatralità studiata, per arrivare al clou che lo porta al bordo del palco e bum! eccolo buttarsi indietro di schiena sui palmi delle mani del solito fido roadie nascosto tra l’audience; o ad ululare con la bocca ad ogni nota urlata che gli esce dalle mani.
C’è chi, in rete, ben ha pensato di trucidare questo benedetto assolo, più per l’arroganza altezzosa dell’uscita di Prince che per altro. Perlopiù, comunque, la pensano come me: il solo è un tornado in una sala occupata - sino ad allora - da spoiled brats, da viziati riccastri di una certa età, TUTTI BIANCHI, (tranne Billy Preston che nero nero lui, dài!, non lo era mai troppo stato) a cantare un pezzo dalle sfumature blues, dalla tristezza blues e dall'arrangiamento invece proprio bianco. Per quel modo di stare sul tempo. Ché il bianco tende a starci sopra, mica ad andarci un po’ dietro, al tempo, come tendono con coolness i neri. E in più ‘sta dodici corde di Petty che slabbra le battute…
Così Prince t’arriva in teatro - in quest’acquitrino di suono - con la giacchetta in velluto attillata come la tonalità asciutta della sua Telecaster (la stessa chitarra il cui brutale timbro lacera i veli della decenza in Simpathy For The Devil, altro grande pezzo -come questo- del ’68), camicia porpora, fazzoletto porpora, fedora porpora. E ‘sto sorrisetto mentre con la mano destra a frullino ti sventaglia mitragliate di note sulla pappa ritmica che gli sta sotto.
Il fallo-chitarra, l’eiaculazione mimata durante la nota sovracuta, la schitarrata con i denti, c’è tutta la mimica del r’n’r di fine XX sec. che nel XXI è oramai diventata storia e gimmick. E non escluderei di leggere anche l’inizio di una certa assuefazione alla gigionesca routine musicale da parte del nostro Principe rosso che sembra evocare quell’abbecedario di pose rock col distacco che Kurt Cobain aveva da “In Utero” in poi. Comunque, una tempesta.
Alla fine quello che significa quest’uscita guappesca in un concerto a (suo modo) mitico, quella sua falcata decisa diritta verso i camerini? è una esternazione della curiosa e difficile convivenza tra quella che fu un’opportunità di suonare in quel concerto (un’occasione che sarebbe stata riprodotta in tutto il mondo per anni a venire) e il suo essere un artista eminentemente nero, seppure amato dai bianchi - e adesso, lì per lì, in una band che alla fine scimmiottava i Beatles neanche troppo bene, senza un polso ma che dico funky? quantomeno presente.
(...)
In questo contesto, l’uscita di Prince sembrò KurtCobain-iana, che sì! in fondo si assomigliavano. E fu preparata, come il Kurt dei-tempi-ormai-finali faceva (tipo a Rio, in un live Scentless Apprentice di 15’, con la routine di scopare e sputare alla videocamera); al pari della chitarra attentamente raccolta e fatta avere ad Oprah da Prince.
Fu insomma una pantomima del tipo: volevate Jimi? vi siete divertiti con la scimmia negra che ha suonato per i vs. culi bianchi? volete ancora? ma andate pure afan! E mentre esce per un istante pare che a Prince sfiori davvero l’idea di dare un’occhiata ai suoi compari di canzone e accennar loro un saluto.
Ma è un istante che subito si stempera: “manco p’o cazz’ e andate a fanciullo pure voi. E specie tu, con quel tuo culo bianco, Tom Petty.” Perché sì, credo che la storia di quanto-è-bella Free Fallin’ fosse una gentilezza promozionale, se me lo chiedete. Era Prince, mica Billy Joel! Ma forse invento.
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